mercoledì 30 dicembre 2015

Il prezzo dell'amore


Non ci si abitua mai al dolore.
Ogni volta ti sorprende come fosse la prima.
E sì che l’avevi già conosciuto, l’avevi colto altre volte nello sguardo di chi cercava, con composto timore, di nascondersi al tuo per non versare inutilmente la sua tristezza nel tuo cuore.
Ogni volta torna più nero, così, all’improvviso quando tutto sembra azzurro, come il cinico jolly di un gioco beffardo le cui regole son note solo al suo diabolico autore. E ti lascia lì, vuoto e inerme, davanti ai tuoi fantasmi messi in fila come tante candele spente ancora fumanti, a pensare ai dolori passati, cui hai assistito brandendo un fragile scudo di speranza che non sai bene se fosse paura, rabbia o banale impotenza.
In ogni caso, il nodo in gola che ti impedisce di inghiottire quel freddo male che non sarai mai pronto ad affrontare, ti scaraventa addosso in un secondo tutta la tua vita. La tua e quella delle persone perse che ti hanno amato e che vorresti riabbracciare un attimo, una volta ancora, l’ultima come fosse la prima.
Ma allora, pensa. Fermati, apri gli occhi e affonda lo sguardo dentro lo sguardo di chi forse non vuole nascondersi al tuo, perché dopo tutto la sua tristezza non è un peso nel tuo cuore ma è solo il prezzo dell’amore. Forse è proprio questo l’immenso abbraccio che vorresti dare per stringere in un solo afflato tutti gli affetti che sopravvivono in te. Quel patto tra sguardi è la condivisione di un momento triste che passerà superando se stesso e che germinerà altre emozioni, nuove, improvvise, culla a loro volta di altre emozioni altrettanto vive. Sconosciute persino al diabolico autore del gioco beffardo che guida verso l’ombra del misero capolinea. Armato dei suoi macabri jolly, forse, ma incapace di sconfiggere l’amore per gli altri, l’amore per la vita. Perché quello non è un gioco dettato dai dadi ma l’unico mezzo per arrivare vincenti al traguardo.
E allora, sguardo nello sguardo, uniti in un abbraccio, diventa chiara una cosa.
Non ci si abitua mai al dolore, è vero, perché l’amore ha un prezzo. Ma non ci si abitua mai neanche alla gioia, perchè l'amore premia. E quel nodo in gola che ti paralizza di fronte a un male che non sarai mai pronto ad affrontare soccomberà ogni volta di fronte al tuffo al cuore che puntualmente, capricciosamente e inesorabilmente ti riporterà sempre ad alzarti, a guardare avanti e a mordere la vita. 
Insieme.

giovedì 3 dicembre 2015

Gioco di specchi


Mi domando se siano i paesaggi a colorare le nostre emozioni o viceversa.
Se un cielo gravido di grigio possa essere artefice di un inspiegabile malessere interiore, oppure se sia un’inconsapevole negatività emotiva a rendere quel medesimo cielo minaccioso ai nostri occhi.
E che dire di un languido lago rassegnato all’abbraccio dell’inverno? Ai più, un paesaggio lacustre che galleggia nella stagione più arida di colori suggerisce indolenza, tristezza, melanconia. Persino depressione. A pochi altri, invece, il lago d’inverno rassicura e accompagna con la sua muta quiete una palpabile serenità interiore.
Allora penso che forse questo dialogo silente tra i nostri stati d’animo e gli scenari in cui ci immergiamo altro non sia che un gioco di specchi. Noi vediamo fuori ciò che siamo dentro.
L’importante è non abituare lo sguardo, non lasciarlo addormentare davanti alle sfumature dei paesaggi apparentemente immobili, perché anche quelle più impercettibili sono messaggere di vitali vibrazioni.
E’ lo sguardo capace di stupirsi, di emozionarsi e di innamorarsi ogni volta, anche davanti allo stesso panorama, quello che sa cogliere la poesia della Natura, sempre e comunque. Che sia un cielo gravido di grigio, o un lago sprofondato nell’inverno.

E lo stupore, si sa, è quel colore che rende tutto migliore. 
Dentro e fuori.

mercoledì 2 dicembre 2015

Il vagito dell'Universo


Facile è amare la Natura quando si risveglia. Quando la primavera sboccia d’inebrianti colori e l’estate schiude i suoi sensuali odori.
Ma si può altrettanto amare la Natura quando si assopisce. Quando si ritira nel suo letargico sonno, piano piano, in punta di piedi, sottovoce. Quasi chiedendo scusa alle creature viventi per sottrar loro colori e profumi, ecco che mesta si avvia verso il suo obbligato regredire, al ritmo ossequioso di una luce sempre più pallida, sempre più fredda. Fino a liquefarsi in una fragile penombra ai confini col mondo soffice dei sogni.
Così le piante finiscono per somigliare a immobili scheletri abbozzati in uno sfumato leonardesco, il cielo sembra piovere dentro il lago e le colline attorno paiono scivolare anch’esse dentro quell’enorme pozza grigioazzurra che è l’inverno.
Il silenzio si fa forte. Tutto tace. Eppure da qui, tra cedri e cipressi che come spavaldi scudieri sorvegliano il mio scrivere, sembra quasi di avvertire un leggero suono, un rumore di sottofondo, denso, costante, emanato da una sorgente invisibile, vicina o lontana non saprei dire. Sembra un filo teso tra la Natura e me. Che sia il primo vagito dell’Universo? L’eco sordo del Big Bang? Quella inquietante radiazione cosmica di fondo sfuggita di bocca alla Terra nell’istante del suo nascere, tanto impalpabile quanto presente, testimone di immensa forza e precaria certezza?
Ecco che allora, cullata da questo ancestrale lamento mai spento, sento che la Natura non muore mai per davvero. E che quel suo puntuale, lento e progressivo sopirsi fino quasi a scomparire non è che un’altra splendente manifestazione della sua eterna bellezza.
Un altro volto. Un altro vestito. Un altro trucco con cui lei si mostra, si spiega, si lascia guardare e si lascia amare.

Da chi la sa vedere.    

domenica 29 novembre 2015

Anche i cani ridono


C’era una volta una bambina che amava raccontare le favole al suo migliore amico.
Lei aveva circa quattro anni, proprio come il suo amico, un bel Setter inglese di nome Teddy.
Lui, occhi dolci da perdersi dentro, l’ascoltava sempre, serio e attento, come un vero cane da caccia concentrato sulla preda. E lei non si stancava mai di parlare, di raccontare, persino di domandare se quella storia gli fosse piaciuta oppure no, se la trovasse divertente oppure noiosa.
C’era una volta ma per davvero, perché questa non è una favola. E’ una storia vera.
Oggi quella bambina è donna ormai e non ha smesso di parlare con i suoi cani che negli anni si sono succeduti come le stagioni nella vita, sommando ricordi indelebili, calcificando emozioni che si sono via via impreziosite con la maturità.
Naturalmente, come per il primo amore, anche il primo cane non si scorda mai e resta in qualche modo unico, fonte di un imprinting emotivo speciale che in un certo senso sarà la misura per i successivi amori. Impossibile quantificare per davvero l’affetto per una creatura, sia umana sia animale, tutt’al più ripensandoci si avverte nel cuore una specie di vibrazione più forte, più intensa, legata spesso a un ricordo particolarmente significativo, un istante di gioia o di improvviso dolore.
Con Teddy i ricordi accumulati dalla bambina sono tantissimi e ancora vivi, nonostante il tempo passato. Lui e lei hanno vissuto insieme circa quattro anni, anni felici, fatti di estati calde trascorse in un giardino rigoglioso di fiori e di piante da frutto e di lunghi inverni bui dov’era bello coccolarsi insieme al caldo di una coperta di lana ai piedi delle scale. Era lì soprattutto che lei gli raccontava le favole.
Favole e poesie. Perché con l’inizio della prima elementare Teddy era diventato il maestro di ripetizione della bambina: ascoltava le lezioni di storia, di geografia ma soprattutto ascoltava le poesie che lei doveva imparare a memoria. Inutile dire che con tanto esercizio la bambina collezionava ottimi voti a scuola!
Per premio, o almeno lei immaginava fosse tale per Teddy, la bambina nei pomeriggi di sole invitava qualche compagna e metteva in scena un “teatrino” in giardino. L’attore era lui, Teddy, che docile e benevolo si prestava ad essere vestito e addobbato come un umano per lo stupore dei bambini. Poveretto! Non s’è mai ribellato, neanche quando era costretto a infilarsi magliette e calzoncini da cui la coda folta e rigida non sapeva proprio dove uscire. Forse il vero premio per lui erano le carezze e i biscotti che tutti gli offrivano finito il grottesco spettacolo, quando sbuffando se ne andava via per conto suo scrollando il pelo bianco e nero, nudo, finalmente libero di scodinzolare e di andare a riposare sotto l’albero di albicocche.
La bambina era inconsapevolmente grata a Teddy per la sua generosa complicità e con gli anni questa gratitudine s’è trasformata in consapevole affetto, fino a cucire tra i due un legame di profonda amicizia, nient’affatto diverso da quello tra due esseri umani. Per lei Teddy aveva un altro clamoroso pregio, oltre alla pazienza, un pregio che in realtà per gli adulti rappresentava un difetto: lui, Setter inglese doc, a caccia era una schiappa. Ogni volta che il padre della bambina lo portava con sé nelle riserve a fiutare lepri e fagiani tornava col sacco vuoto e il fucile intatto. Scrollava la testa, evidentemente deluso da un cane che sapeva andare a caccia solo di farfalle, lamentandosi che era tutta colpa delle troppe carezze e dei vizi che riceveva, che non era più un cane ma un bambino. Era proprio vero! E lei ne era fiera, così quando lo vedeva rientrare dalla battuta tutto ansante col pelo zeppo di erbacce e di spighe di grano sulle orecchie, prima ringraziava il cielo che fosse tornato (perché aveva sempre l’angoscia che si potesse perdere in una riserva) e poi lo spazzolava con amore fino a fargli dimenticare la brutta esperienza di spari e di poveri animali braccati.
Un giorno, tornata da scuola, Teddy non era al cancello ad aspettarla come al solito. Lei aveva capito immediatamente che qualcosa di brutto era successo. Del resto erano giorni che aleggiava un’atmosfera strana in casa: i silenzi dei genitori dicono più delle parole. In quel periodo, infatti, Teddy aveva cominciato a soffrire di crisi epilettiche, convulsioni improvvise che lo lasciavano stremato per lunghi minuti. Non si sapeva perché, solo succedeva e quando capitava bisognava intervenire subito con uno zuccherino imbevuto di valium, più altre medicine a lei sconosciute. Capirlo era facile ma accettarlo no. Da quel momento le sue mattine a scuola sembravano lunghissime, pesanti, immobili, non vedeva l’ora di scappare a casa per vedere se Teddy stesse bene, e imparare poesie non le piaceva più. E’ stata una mattina di tardo ottobre che, tornando a casa con la solita ansia, il dubbio era diventato certezza. L’amarezza del vuoto, il peso del silenzio, l’impotenza dei genitori. Sopraffatta da un nodo in gola, la bambina non aveva nemmeno dovuto chiedere. Solo voleva sapere se c’era qualcuno vicino a lui in quel momento, se aveva avuto il suo ultimo zuccherino al valium, se aveva sofferto … Ma per paura di sapere se n’era stata zitta e con le lacrime agli occhi, chiusa in un dolore ingiusto ancora troppo grande da capire, stringeva col pensiero forte a sé il suo più caro amico: Teddy, il Setter inglese che non sapeva cacciare e che ancora oggi, lei ne è certa, sarà da qualche parte, libero di correre dietro alle farfalle. 

La promessa a se stessa di non desiderare mai più un cane in vita sua è durata meno di un anno. Ogni lutto, si sa, ha una sua evoluzione e l’elaborazione aiuta a crescere.
Ricky è capitato per caso. Un pomeriggio di piena estate, durante un’uscita in auto, un buffo cagnolino a metà tra un biondo Yorkshire e un bruno volpino s’era messo in testa di voler a tutti i costi salire in macchina con lei e la madre. Abbaiava proprio a lei, alla sua portiera, e con slancio d’istintivo soccorso verso chi implora aiuto, la bambina ha aperto la portiera, è scesa dall’auto e lo sconosciuto le è letteralmente saltato tra le braccia. “Ti prego, ti prego, si chiama Ricky e vuole assolutamente venire a casa con noi!” supplicava alla madre già rassegnata. E così Ricky, non si sa poi il perché di quell’improvvisato battesimo, se n’è andato con loro, godendo degli stravizi della bambina per qualche mese. Sembrava felice, lei anche, compatibilmente con il ricordo ancora caldo di Teddy. Eppure, nonostante le effusioni quotidiane e i giocosi scambi di tenerezze, tra i due non si è mai allacciato un dialogo emotivo completo. Forse perché non ce n’è stato il tempo: Ricky evidentemente era uno spirito libero, un avventuriero, un vagabondo e forse non per sua volontà. Probabilmente, era rimasto fedele a qualcun altro e la sua lealtà lo portava ogni volta via, lontano. Fatto sta che ripetutamente aveva tentato di scappare, magari alla ricerca della sua prima casa, della sua vera famiglia, chissà. Fino a quando non è più tornato. Questa volta la bambina, nonostante la delusione, non aveva pianto ma le era servita la lezione: un cane non si affeziona a chiunque, può mostrarsi obbediente e grato ma l’amore è qualcos’altro. E Ricky forse era andato via proprio con la speranza di ritrovarlo.

Sperando di rallegrare la bambina, ormai ragazzina a dire il vero, suo padre le regalò per un suo compleanno una cucciola di Breton. Era l’età della prima adolescenza, la più controversa, e una compagnia pelosa poteva essere senz’altro una valvola di sfogo per lei, solitaria e introversa per natura. Certo che quella cucciola - l’aveva battezzata Lady - era proprio buffa. Sembrava isterica, irrefrenabile, sempre di corsa, in perpetuo movimento come fosse stata caricata a molla. Dal pelo rossiccio e bianco sparavano due occhietti azzurrissimi, accesi come lampi di ghiaccio, e a studiarla bene la ragazzina ci mise poco a capire che le femmine sono molto più furbe dei maschi. Anche tra i cani! Lady era disobbediente, testarda, irriverente eppure divertente e affabile con lei: forse l’aggettivo giusto è “ruffiana”. Inutile dire che il padre aveva scelto proprio un Breton perché in cuor suo sperava di allevare un alleato di caccia questa volta. In realtà il fallimento è stato ancora più clamoroso: Lady sembrava non avere “tartufo” che per torte e biscotti, nessun istinto di predatore, sempre distratta e indifferente al richiamo. Ma come si faceva a non volerle bene quando, dopo mille rimproveri, veniva vicino col muso basso e si sottometteva con le zampe in aria, mendicante perdono. Aveva una pancia rosa e tenera come quella di un maialino da latte, dello stesso colore del tartufo ma più delicata.
La sua vera natura si manifestò quando, un paio d’anni dopo, le fu presentato un bel Breton maschio e fu amore a prima vista. La ragazzina era cresciuta abbastanza ormai e aveva imparato a rispettare la volontà degli altri, anche (e soprattutto) quella degli animali. Lady aveva preferito trasferirsi nella famiglia del suo nuovo compagno, una famiglia di bravi allevatori, dove negli anni a venire avrebbe dato alla luce diverse cucciolate, tutte promettenti a caccia. Nel frattempo il padre della bambina aveva deciso di appendere il fucile al chiodo o, per lo meno, di dedicarsi solo al tiro al piattello, e in quello era un vero campione. Da quel momento, niente più caccia, né cani frustrati, né bambine straziate.
Semplicemente io e i cani che avrebbero accompagnato il resto della mia vita.

Né Ricky né Lady hanno lasciato un’impronta tanto profonda come Teddy nel mio cuore. E devo dire che altri tentativi di adottare trovatelli, o di farmi scegliere io da loro, non hanno costruito un rapporto d’amicizia tanto intenso come il primo. Tuttavia, ogni cane con il suo modo d’essere, il suo temperamento e le sue esigenze ha aggiunto qualcosa alla mia esistenza. Ognuno a suo modo mi ha aiutato a capire la natura non solo animale ma anche umana. Perché le reazioni emotive che i cani muovono in noi implicano reciprocità: insegnano a capirsi, a correggersi e a migliorarsi.
Avrei dovuto aspettare fino ai diciotto anni prima di innamorarmi nuovamente di un cane e guarda caso si trattava ancora una volta di un cacciatore. Lei si chiamava Tris ed era uno spettacolo di Setter irlandese. Il suo manto da cucciola era una promessa di rosso vivo ma non aveva ancora la lucentezza che avrebbe acquistato crescendo. A sette mesi Tris era già tutto un guizzo di energia, sembrava un cavallo purosangue tanto era regale e col suo portamento altezzoso pareva essere consapevole di tanta bellezza. Dicono che i padroni finiscono con il somigliare ai propri cani. Ebbene mi sentivo fiera di somigliare a lei quando insieme passeggiavamo per la città: tutti ci guardavano e la mia vanità di giovane donna era addolcita proprio dalla tenerezza che provavo per Tris. Anche lei non ci ha messo molto a dimostrarmi quanto siano più sveglie le femmine rispetto ai maschi. Sembrava calcolare, studiare, immaginare e prevedere. Sapeva quando sarebbe potuta entrare in cucina senza essere vista e rubare l’arrosto, senza fare il minimo rumore, senza sporcare. E sapeva quando sarebbe stato il momento di nascondersi sotto l’acero per sottrarsi al bagno che non poteva sopportare. Così come sapeva quando l’avrei portata a passeggio, cosa che adorava, bastava io la guardassi in un certo modo e sussurrassi canticchiando “Triiiis …” e lei cominciava a correre per tutto il giardino come per annunciare a tutti l’evento. Poi, dopo almeno tre giri di forsennata corsa, s’accucciava docile per farsi infilare collare e guinzaglio, e via … fuori a farsi ammirare.
Era tanto bella quanto schiva e non le piaceva farsi fotografare. Non so perché ma appena mi vedeva comparire armata di macchina fotografica assumeva un’espressione timida, vergognosa e con le orecchie basse sembrava chiedermi “no ti prego, le foto no!”. Nonostante le tacite proteste ho rubato scatti bellissimi a Tris e oggi sono tra i ricordi più intensi che ho di quegli anni, anni ancora felici. Al contrario di Lady, Tris non aveva gusti facili in fatto di maschi e tutti i tentativi per farla accoppiare con aitanti Setter irlandesi sono andati a vuoto. Solo un amante ha accettato: un goffo cagnetto nero che veniva a trovarla di tanto in tanto davanti al cancello di casa. Basso, tarchiato e spelacchiato arrivava appena all’altezza di annusare e leccare ciò che più gli piaceva ed io, spiandoli da lontano, intuivo il segreto godimento che lei provava a quel contatto, perché il pelo lungo la schiena le si rizzava in modo spudorato. Beati gli animali che non conoscono vergogna! pensavo tra me e me facendomi in disparte per lasciarli al loro legittimo piacere.
Abbiamo vissuto nove anni insieme. Tris ha condiviso con me alcuni momenti fondamentali della mia vita: i miei studi universitari, il mio matrimonio e la morte di mio padre al quale è stata inspiegabilmente vicino nel lungo istante in cui si è spento. Gli è stata accovacciata ai piedi del letto tutto il tempo quella notte: evidentemente lei aveva sentito in anticipo il momento in cui la morte sarebbe arrivata.
Anche Tris se n’è andata precocemente dopo una brutta malattia all’utero per cui non ci sarebbe stata soluzione ma solo un sofferto accanimento. Nonostante il verdetto del veterinario, infatti, ho tentato di tutto per tenerla in forze, per stimolarla a mangiare, a bere, a camminare. Fino a che, me lo ricordo benissimo come fosse oggi, al mio ennesimo tentativo di farla alzare dal lettino, s’è buttata senza forze su un fianco e mi ha guardato dritto negli occhi. Dignitosa e riconoscente insieme, sembrava chiedermi di lasciarla andare, di darle la sua pace, svuotata ormai di quel guizzo d’energia che l’aveva animata per tanti anni. Bella, intelligente e fiera Tris ha lasciato un grande vuoto in me, un vuoto riempito dai ricordi e da quelle rare fotografie che ero riuscita a rubare alla sua anima schiva.

Tris aveva fatto appena in tempo a conoscere Gabriele, mio figlio, il quale subito aveva suscitato grande gelosia in lei. Lo notavo dalla posizione delle orecchie spostate all’indietro, in un misto di timore e diffidenza, quando si trovava al cospetto di quel fagottino morbido e profumato. Si capiva, un bambino per casa avrebbe significato meno tempo e meno attenzioni per lei. Ma quando se n’è andata mi son chiesta come fosse possibile far crescere un figlio senza cani attorno? Non potevo non dare a Gabriele la possibilità di vivere le stesse emozioni che avevo provato io durante l’infanzia, nel bene e nel male. Così circa due anni dopo è arrivato Oscar!
L’occasione era troppo golosa: una cucciolata di otto Boxer aspettava famiglie amorevoli che si prendessero cura di loro. E chi meglio di noi? Oscar era il più grande, il più robusto e il più prepotente tra i piccoli e non ho resistito. L’ho scelto forse per esorcizzare la fragilità che Tris, con la sua femminilità ferita, aveva mostrato negli ultimi mesi di vita. E l’avevo chiamato Oscar per via di una vaga somiglianza con il mio affezionato medico: ampio torace, vita snella, muscolatura da atleta. Oscar cane era così grazie alla generosità della natura; Oscar dottore, grazie all’abilità del suo personal trainer!
Pratico e materiale, Oscar aveva un manto morbido color del miele ma era un pochino rude. Sembrava dare poca importanza ai sentimenti e badava piuttosto ai fatti concreti: pappa, ossa, passeggiate e anche coccole naturalmente. Ma sembrava che le carezze si fermassero alle sensazioni tattili più superficiali, più esterne. Mentre Teddy, per esempio, rivelava una sensibilità più vibrante guardandomi negli occhi con una riconoscenza squisitamente umana, Oscar se la godeva, punto e basta. Ma forse ero io a proiettare su di lui (e su Teddy prima di lui) sensazioni mie e in realtà non è mai giusto antropomorfizzare gli animali attribuendo loro sfumature emotive nostre. Dovremmo imparare ad ascoltarli, non interpretarli. Comunque sia, Oscar s’è rivelato un degno compagno di giochi per un bambino sveglio e con la vocazione al comando come il mio: robusto ma rispettoso, lo buttava regolarmente a terra col suo pesante slancio ma non gli ha mai fatto male. Così Gabriele ha imparato la reciprocità del rispetto, senza mai abusare della pazienza di Oscar che, dietro quel muso apparentemente truce, nascondeva in verità tanta bontà.
E’ proprio vero che non ci si abitua mai al dolore di separarsi da un affetto. Così quando Oscar s’è ammalato ai polmoni mi son trovata del tutto impreparata ad affrontare un’altra volta la perdita di un cane. E nonostante mi fossi ripromessa di non usare più accanimenti terapeutici dopo l’esperienza con Tris, non ce l’ho fatta e per diversi giorni, fino all’ultimo, si è tentato di tenerlo in vita con medicine e cure in realtà vane. L’unica consolazione è stata averlo riportato a casa in tempo perché posasse il suo muso non più truce sul cuscino e si addormentasse sul suo divano preferito, una sera di un freddo inverno, lungo e piovoso. Un inverno da dimenticare.

Ma come dicevo all’inizio, ad ogni stagione ne succede un’altra. E’ inevitabile, è la natura. E anche i sentimenti sono fatti per essere continuamente alimentati, non sostituiti ma rinnovati in una ciclicità che insegue l’infinito.
Così, il vuoto che aveva lasciato Oscar è stato colmato da un nuovo arrivo. Questa volta è stato Gabriele a sentire il desiderio di avere un cane, evidentemente il sentimento d’affetto che speravo imparasse a nutrire per gli animali aveva attecchito. Combattuta, tentata e subito conquistata dalle sue convincenti insistenze, ho lasciato che facesse la sua scelta.
Rocky vive ancora con noi. E’ un Cane còrso un po’ particolare, perché pur essendo un molosso – quindi possente, robusto e dal temperamento potenzialmente grintoso – è in assoluto il cane più docile, pacato e remissivo che abbia mai conosciuto.
Avremmo dovuto capirlo subito quando sette anni fa, arrivati all’allevamento, ci sono venuti incontro due cuccioli, gli ultimi rimasti da una folta cucciolata di còrsi. Una era una femmina, l’altro un maschio, entrambi col manto tigrato su fondo fulvo e gli occhi languidi. E’ bastato un attimo: la femmina è arrivata per prima e quando è sopraggiunto il fratellino, lei lo ha scaraventato da parte con le zampe costringendolo a sottomettersi, sdraiato sulla pancia, piatto piatto come uno zerbino. E’ li che abbiamo deciso: Rocky, il fratellino, avrebbe fatto parte della nostra famiglia!
La specialità di Rocky si è manifestata da subito, già in macchina durante il viaggio verso casa: era, ed è tutt’oggi, quella di dormire. E di russare sonoramente. Ovunque si posi s’addormenta, di un sonno istantaneo, beato, limpido, di chi è in pace con il mondo. Tra lui e me s’è stretto un legame profondo in questi anni, un legame disarmante che mi riporta a quello con Teddy anche se i due sono completamente opposti.
Inutile dire che Rocky non ha mai dimostrato di avere la stoffa per comportarsi da cane da guardia o da difesa, come le potenzialità della sua razza suggeriscono. Lui gongola in un mondo tutto suo in cui esistiamo solo noi, agli estranei non presta grande attenzione, qualche pigro abbaio ai passanti, un accenno di scodinzolamento ai bambini che vengono a salutarlo. Ma essenzialmente lui vive per la famiglia. Nemmeno la pappa è tanto importante quanto la vicinanza con noi: ogni volta che gliela servo, prima di cominciare a mangiare resta qualche istante fermo a guardarmi, fisso immobile, senza neanche sbavare. E’ come se mi ringraziasse o, per assurdo, mi invitasse a condividere il pasto con lui, tanto sembra benevola la sua espressione. Tra i suoi occhi e i miei si svolgono sempre lunghe conversazioni e quando gli prendo la testa tra le mani sprofondando dentro il suo sguardo mi domando chi ci sia in realtà lì dentro … Chi sei Rocky? Chi sei veramente, tu che sembri più umano di tanti esseri umani?
Ed e’ sempre uno strazio lasciarlo: le mie frequenti partenze e le mie lunghe assenze sono una sofferenza, per lui e per me. Lo mandano in depressione, e anch’io lo avverto. Quando sente le ruote del trolley sulla ghiaia del giardino, emerge d’un lampo dal suo profondo sonno e mi viene incontro piano, quasi in punta di zampe, guardandomi storto con la testa piegata da un lato. “Ma come, vai via ancora? Ma se sei appena tornata …”. Il suo sguardo interrogativo è un rimprovero più tagliente di qualunque parola e non posso che dargli ragione: lui è leale con me, io invece lo abbandono. Il resto della famiglia lo coccola e ne ha cura tanto quanto me, eppure è indiscutibile l’esclusività che il nostro rapporto ha assunto in questi sette anni di vita insieme. E così quando ci si lascia per un po’, inevitabilmente si soffre. Ma l’emozione del ritorno … la gioia del rivedersi … la festa di riabbracciarsi! Ecco, è proprio il momento del ritorno da un viaggio che mi ha fatto scoprire l’altra specialità di Rocky, oltre a quella di dormire: è quella di ridere! Sì, quando mi sente arrivare e mi vede entrare dal cancello, comincia a correre da lontano e io lo osservo con l’occhio di un regista, srotolando la scena alla moviola per non perderne un solo fotogramma. Lui corre, corre e la soffice pelle del muso sobbalza molle in su e in giù, in un buffo ondeggiare al ritmo della possente cavalcata, scoprendo i denti candidi e le gengive sanguigne. E mentre avanza così impetuoso, ecco che la bocca gli si allarga sempre più, si dilata in un movimento volontario e gli angoli si tirano fino alle orecchie. E a quel punto Rocky comincia ad emettere dei mugolii umani che somigliano a un canto allegro, prolungato e acuto: è il suo modo di ridere! E non ridete voi che leggete, è cosa seria questa, perché dovreste vederlo e ascoltarlo per capire davvero l’emozione, la profonda gioia che anche un cane può manifestare in momenti intensi come questo.

Non gli restituirò mai abbastanza amore rispetto a quello che lui manifesta per me. E così, forse, questo è stato vero per tutti gli altri cani della mia vita che tanto mi hanno dato senza chiedere niente in cambio se non affetto e rispetto.
C’era una volta una bambina e forse c’è ancora.
Non voglio pensare alle prossime stagioni ora, è troppo bella questa. Vorrei fermarmi qui, con i miei ricordi, con il mio presente e con la speranza di continuare a far ridere Rocky il più a lungo possibile.

giovedì 29 ottobre 2015

UN DOLCE … RITORNO A CASA AL PROFUMO DI BANANA





L’America è grande. In tutto.
Rientro dai suoi spazi immensi e vertiginosi con il bisogno di planare nel mio abituale spazio, per ritrovare la dimensione della quotidianità, del dettaglio, dell’intimità. E, guarda caso, lo faccio sospinta da un preciso ricordo legato all’avventura americana ancora fragrante.

Un ricordo nato da un sapore, quello di un dolce assaggiato là, che – un po’ come la tenera madeleine di Proust – solletica non solo i sensi ma soprattutto le emozioni.
Si tratta di quello che gli Americani chiamano Banana Bread – pane di banana – che in realtà nulla ha a che fare con il pane, ma possiede l’anima e l’aspetto di un goloso plumcake a base di banane mature, dalla  consistenza invitante, soffice e spugnosa.
Il termine “bread” sarebbe la risposta statunitense al “loaf” britannico: ovvero un cake – un dolce – da affettare, adatto per la prima colazione e per il te del pomeriggio. In realtà, in America il Banana Bread è sempre gradito, anche durante il brunch, e personalmente lo trovo perfetto soprattutto la notte, prima di dormire, quale preludio a soffici sogni!
Il profumo che questo dolce sprigiona è molto persistente e ne anticipa il sapore, pastoso e rotondo, e forse per questo alimenta i ricordi e farcisce le memorie di sensazioni dense di piacere.
Decido dunque di prepararlo oggi, appena tornata: un invito alla grande America a fare ingresso nel piccolo mondo di casa mia.

Ingredienti

Polpa di banane, 450 g (quattro banane molto, molto mature)
Zucchero, 120 g (o stevia, un’alternativa sana e altrettanto buona, consigliata dall’amica Maureen, ottima cuoca!)
Sale, un pizzico
Limone q.b.
Uova, 2
Farina, 200 g
Lievito in polvere, 6 g
Burro, 120 g
Cannella, ½ cucchiaino
Bicarbonato, 3 g
Noci, nocciole e cioccolato (piacere nell’impasto, a seconda dei gusti)

Imparando dall’amica Maureen che le dosi sono importanti, certo, tuttavia il segreto del successo finale va affidato ai sensi, all’intuito, a quella comunicazione silente che ogni mano esperta intrattiene con gli ingredienti e con gli strumenti di lavoro. Complici l’olfatto, immancabile nell’arte culinaria, e l’amore per il piacere.

Guidati dunque da queste bussole invisibili squisitamente femminili, si procede con la sapienza della manualità.
Innanzitutto si schiaccia con la forchetta la polpa delle banane fino a renderla pastosa, inumidendola con qualche goccia di limone per evitare che annerisca.
In una ciotola si monta il burro ammorbidito con lo zucchero (o la stevia) fino a tradurli in un composto spumoso, al quale vanno uniti le uova e il sale.
A questo impasto già di per sé attraente vanno aggiunte le banane lavorate, fino ad amalgamare bene tutto, lasciando che il profumo di frutta matura si sposi definitivamente con gli altri ingredienti, inebriando le narici.
Al composto profumato vanno infine aggiunti la farina setacciata, il lievito e il bicarbonato. Ultima seduzione olfattiva, il tocco di cannella.
Si procede imburrando e infarinando uno stampo da plumcake, versandone il composto che non deve superare i 2/3 della forma. Noci, nocciole o gocce di cioccolato possono essere cosparse sulla superficie, oltre che nell’impasto, in modo da rendere più croccante l’impatto al palato.
Non resta che infornare a 180 gradi per 60 minuti circa, controllando la cottura con il trucco dello stecchino.
Il Banana Bread va lasciato decantare e va affettato tiepido, quando i sentori olfattivi lasciano il posto agli stimoli gustativi. In questo modo tutto l’ambiente finisce col godere del suo profumo caldo e avvolgente. Profumo di tropici e di casa, di esotico e di familiare, al tempo stesso. Profumo di buono, da condividere con gli amici, con la famiglia, in semplice armonia.
Anche questo è America. Un’America che dalle sue esagerazioni sa ricavare anche intime  emozioni. Infatti, la storia del Banana Bread pare essere legata a un evento storico di monumentale importanza: sembra che il dolce sia nato durante la Grande Depressione quando, per esigenze di economia domestica, le donne utilizzavano tutto in cucina, anche avanzi, scarti e materie prime al limite del decoro. Come, appunto, le banane annerite dall’eccessiva maturazione, meno buone ma meno costose.
Da cibo umile, dunque, a ricca tradizione. Nel 1933 il Banana Bread compare per la prima volta nel Balanced Recipes Cookbook della Pillsbury Company e conquista definitivamente gloria nel 1950 grazie al Chiquita Banana’s Recipe Book.
Il Banana Bread, negli anni, ha guadagnato anche un suo National Day, che cade il 23 febbraio. E anche se oggi è solo il 29 ottobre, mi piace eleggere il Banana Bread come il mio dolce personale, per celebrare un dolce ritorno a casa.
Thank’s America!

domenica 4 ottobre 2015

Memoria o desiderio


Giornate come questa inducono all’ozio.
Avvolta nel caldo abbraccio di una coperta, somiglio alla montagna di cui perdo i contorni, così ammantata di avide nuvole. Nuvole spumose e dense che inghiottono anche il sottile confine tra lago e cielo, tra acqua e terra, tra estate e autunno.
Così, abbandonata a una sensuale indolenza che scalda più di una coperta, mi trastullo con i contorni di me stessa chiudendo fuori il freddo, la pioggia e le nuvole.
Dentro, solo sole. Le carezze dell’amore.
Sole che gioca a rimbalzare ricordi e sogni, in un’immaginaria gara, una sfida di forza, di intensità, di durata …chi vincerà? 
La memoria o il desiderio?
Entrambi, probabilmente, rincorrendosi a vicenda verso il meritato traguardo di un presente trasognato. Perché non può esserci desiderio senza memoria.
Così come non può esserci lago senza cielo, acqua senza terra, estate senza autunno.
Sole senza pioggia.
Io senza te.

martedì 29 settembre 2015

Relativa-mente


Cogliere le bassezze
in chi supponevamo grande
aiuta a dare 
la giusta altezza
alla propria statura.

mercoledì 23 settembre 2015

Il dono


Il primo assaggio d’autunno s’è presentato con ardita insolenza.
Nemmeno il tempo di dire addio al bikini ed ecco che le montagne specchiate sul lago si son vestite di bianco, rubando la scena al poetico foliage dei boschi. Un bianco verginale, che con il suo apparente candore vuole rendere romantico questo repentino voltafaccia stagionale. Stagioni sempre più capricciose, ancor più di una bella donna innamorata dell’amore!
Così, mentre gli amanti di canoe e di stand-up paddle s’attardano con gli ultimi morbidi sciabordii lacustri, gli affezionati delle vette cominciano a spolverare scarponi e racchette.
E mentre dai comignoli del paesello s’elevano i primi sentori di buona legna bruciata nel camino, gli insetti tardivi presi alla sprovvista bussano con frastornata disperazione ai vetri delle finestre, quasi a voler mendicare l’ultimo sorso di calore.
E io, seduta qui, cullata tra l’eco ancora vibrante dell’estate e il primo assaggio d’un autunno assai precoce, mi beo del privilegio di assorbire con delicato piacere ogni immagine, ogni odore, ogni sensazione che la Natura tutt’attorno dona a chi ha il dono di sentire.
Un dono che non conosce stagioni.

martedì 22 settembre 2015

L'immensa grandezza dell'infinitamente piccolo



Tra l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande la differenza è talvolta trascurabile.
Guardando il cielo punteggiato di costellazioni per lo più sconosciute o il mare popolato da creature con fogge e colori che superano l’inverosimile, penso che tutto sommato i due immensi abissi, quello celeste e quello marino, un po’ si somiglino.
Si somigliano per il misterioso fascino che li anima e li avvolge, fascino solo in parte afferrabile dalle logiche della comprensione e tuttavia carezzabile dall’immaginazione.
A metà tra le due vertiginose vastità galleggia, poi, un altro abisso altrettanto seducente, per quanto microscopico al cospetto dei primi.
E’ l’universo dell’animo umano. Potrebbe stare racchiuso in una mano, come un cuore. O in due, come un cervello. Tuttavia non si tratta di un organo, né di una stella, né di un pesce. E’ un qualche cosa che non si vede, non si tocca e non si sente, eppure esiste.  
Ed è qui, dentro quest’impalpabile tessuto ricamato di sogni e pensieri, paure e passioni, desideri e illusioni, che si srotolano quelle paludose sabbie mobili inespugnabili dall’umana ragione, di cui siamo al contempo schiavi e padroni.
Valli e dune, vette e precipizi, giungle e deserti, che si ripiegano su se stessi infinite e infinite volte, moltiplicando curve che cercano linearità, anfratti che cercano spazio e ombre che cercano luce. Sfuggenti alla matematica precisione di qualsiasi strumento di misurazione, le geometrie dell’animo umano sbeffeggiano la logica della ragione e somigliano piuttosto alle rivoluzioni cromatiche riprodotte da un caleidoscopio, i cui vitrei ectoplasmi s’aggregano e disgregano con l’alchimia di un tocco da illusionista, animando una composta danza di spettri.  
Ed è qui, in mezzo ai liquidi fantasmi di quest’immaginario caleidoscopio, che si nasconde e rivela l’immensa grandezza dell’infinitamente piccolo. Un infinitamente piccolo silente e invisibile, ruggente e accecante, in cui è facile perdersi senza più ritrovarsi: entrarci come schiavi è un gioco da lillipuziani ma uscirne da padroni è un’impresa da giganti. 

venerdì 11 settembre 2015

L'enigma


Esistono uomini 
che hanno poteri magici davvero straordinari.
Riescono a trasformare 
più donne 
in una sola donna.
O in una donna sola
...

LADY MARMALADE & CUORE DI MAMMA



Passione e sentimento da spalmare


"Preparare una salsa è un po’ come fare l’amore", scrivevo qualche tempo fa. Oggi, con un po' di sana e onesta ironia, aggiungerei che delle prime si potrebbe anche fare a meno. Del secondo assolutamente no!
Tuttavia, tornando alle salse, occorrono passione, fantasia, gentilezza e quell’esperienza necessaria a guidare l’istinto nella scelta degli ingredienti, delle dosi e dei tempi. In cucina, certamente, la materia prima ha un ruolo protagonista – come l’amante a letto, appunto - ma non esclusivo, perché ciò che crea l’alchemica magia sono anche le quantità, le proporzioni, i tempi e le pause, il cui equilibrio si tradurrà poi nel piacere all’assaggio. Sapori e aromi devono incedere, dunque, in maniera armonica fin dalla preparazione, assecondando ritmi cadenzati quale oculato preludio d’altri più accesi movimenti. La complicità che si stabilisce tra le mani e gli ingredienti è il segreto di un buon risultato, poiché ogni piccolo tocco, intimo o ardito ma mai arrogante, rivela la sensibilità di un bravo partner, così come quella di un bravo chef.
Questa stuzzicante metafora vale per tutti i tipi di preparazioni culinarie, s’intende. Tuttavia, penso che salse, confetture e marmellate si prestino particolarmente a una piacevole traslazione in chiave erotica, sia per quanto riguarda la messa in opera, sia la degustazione, possibilmente condivisa in giusta compagnia.
Non so se Angiolino Berti – che anni fa avevo coinvolto in un mio articolo – s’ispiri a un sentimento amoroso durante la confezione delle sue famose salse. So, però, che il risultato è certamente una sintesi esemplare di come si possa trasformare in sensuale bontà alcuni dei prodotti più semplici e naturali della Terra.
Angiolino gestisce l’Hotel Al Cacciatore, nel cuore della Toscana, a Bettolle vicino al Castello di Valdichiana, hotel che s’affaccia sul ristorante sempre di sua proprietà, Opera Teatro del Gusto. Insieme alla famiglia conduce con arte e sapienza anche il Gran Bar Prestige, offrendo così un servizio completo agli avventori di passaggio e ai tanti turisti innamorati dei buoni sapori toscani. I suoi interessi spaziano dalle gare sportive, alle mostre di pittura e di fotografia, e rivelano un artista e un amante della vita in tutti i sensi. Tuttavia, la produzione di salse, mostarde, marmellate e confetture resta la sua vera passione e nel laboratorio sottostante l'Hotel quest’alchimista del buon gusto traduce la polposità della frutta in dolcezza da spalmare.
“La fantasia è come la marmellata – ha scritto Italo Calvino - bisogna che sia spalmata su una solida fetta di pane”. Così opera Angiolino: concretizzando la sua fantasia. Mescola, misura, sperimenta, assaggia, annusa, azzarda e infine ottiene prodotti deliziosi, completamente naturali, per il piacere dei palati più curiosi ed esigenti. Non somiglia, forse, anch’egli a una laboriosa ape che sfaccenda con amore attorno ai suoi preziosi frutti?
Le dolci new entry di Angiolino sono due confetture appena nate, dai nomi tanto golosi quanto allusivi.
Lady Marmalade – la prima - s’ispira alla nota canzone del gruppo femminile “Labelle” che negli anni ’70 accendeva sensuali fantasie al ritmo di “Voulez-vous coucher avec moi, ce soir …”. Inclusa in seguito nella rivista statunitense “Rolling Stone” tra le 500 migliori canzoni di sempre, Lady Marmalade è parsa perfetta per battezzare proprio la 500° dolce creazione di Angiolino. Pere, mele e nespole sono gli ingredienti eletti che, insieme a zucchero, succo di limone e amore, trasformano la frutta in una sinfonia dal sapore intenso e vellutato.
Cuore di Mamma – la seconda new entry, e 501° confettura – deve invece il suo nome a teneri ricordi d’infanzia evidentemente ancora cari. E’ dedicata alla mamma di Angiolino, il più piccolo di quattro fratelli, e racchiude in sé le lunghe passeggiate in campagna tra filari di vite uva-fragola e odore d’erba tagliata, fragranze indimenticabili che quel bambino resuscita oggi con il suo lavoro. Così, pere, mele e fragole si sposano a meraviglia per il piacere di chi vorrà assaggiare questa confettura, cullato da quegli stessi profumi di un'assolata campagna toscana dall’immutata bellezza. 
Ringrazio Angiolino Berti per continuare a deliziare i miei sensi con le sue nuove dolcezze, muse ispiratrici di spensierate righe, scritte tra un cucchiaino di frutta, un segreto desiderio e un sospirato piacere. 

giovedì 10 settembre 2015

Il Bacio


Non pensare che il rospo 
poi 
sarà un principe.
Pensa che il principe 
prima 
era un rospo.

La differenza


La differenza:

Lui: "Io vorrei tutte le donne del mondo!"
Lei: "Io vorrei solo Un Uomo al mondo!"

lunedì 7 settembre 2015

Parlarsi



Resto convinta che spesso siano i libri a scegliere noi, e non noi i libri. Solo che lo scopriamo dopo, leggendo.
Scopriamo, cioè, l’esistenza di un filo invisibile che trascende spazio e tempo e allaccia i nostri moti d’animo, i nostri desideri, le nostre frustrazioni, il nostro mondo interiore a quello esteriore. Nessuno può provarlo, è vero, ma nessuno può altrettanto provare il contrario.
Così mi piace pensare che quel magico filo invisibile abbia oggi allacciato me e il libro di Eugenio Borgna “Parlarsi. La comunicazione perduta”.
Forse in risposta a un desiderio di ascolto, mi è capitato tra le mani questo breve saggio, scritto con l’abituale disarmante semplicità di chi sa scrutare negli abissi più oscuri dell’animo umano. Di chi sa che per far luce nel labirinto di quelle tenebre esiste un solo, prezioso strumento: la parola. Una comunicazione semplice, onesta, sincera, trasparente, vera. Una comunicazione che per poter funzionare ha bisogno innanzitutto di saper ascoltare.
Ma che cos’è in sostanza questa “comunicazione”, questa parola-marmellata, questa parola-valigia, come direbbero i linguisti? Non somiglia forse a un ponte? Un ponte fatto di lettere, di sillabe, di parole che pongono in relazione se stessi con gli altri. Ma il motore che sospinge le parole ad attraversare il ponte e tessere un terreno comune su cui incontrarsi è la passione: senza l’emozione la comunicazione sarebbe solo un involucro vuoto, incapace di dare e incapace di ricevere. Perché le parole sono creature viventi e pertanto hanno un cuore pulsante.
In ogni forma di comunicazione, e soprattutto in quella terapeutica, l’Io si confronta con un Tu nell’orizzonte di un Noi che fonde e trascende l’Io e il Tu in una nuova dimensione dalla quale si esce cambiati e non si è più quelli di prima. Nella vita non c’è solo qualcuno che parla e qualcuno che ascolta ma ci sono contemporaneamente – anche nel silenzio – un parlare e un ascoltare legati in una continua circolarità di esperienze che nascono dalla nostra capacità di emozionarci.
Anche se in questo libro Borgna volge, come sempre, uno sguardo privilegiato ai suoi pazienti e alla relazione squisitamente terapeutica, credo abbia molto da offrire anche a chi non vive necessariamente un contesto patologico. Esistono così tante forme quotidiane di sofferenza, spesso subdole, spesso invisibili ai nostri stessi occhi, magari travestite da seducenti miraggi, ammalianti spettri dal voluttuoso abbraccio che poi, alla fine, ci si rivoltano contro azzannandoci a tradimento, lasciandoci soli con i nostri frammenti di coscienza da ricomporre.
Ecco allora che in queste situazioni di inattesa sofferenza, di quotidiani travagli interiori, diventiamo tutti un po’ pazienti in affanno, bisognosi di parole, magari racchiuse in un libro come questo, magari donate da un amico lontano che ha imparato ad ascoltare.
Tutti abbiamo bisogno di parole.
Parole che curano, che leniscono ferite e mitigano dolori.
Parole che aiutano a capire.
Parole che aiutano a vivere.   

lunedì 31 agosto 2015

Il candore del pudore perduto



Ebbene sì, ci son cascata anch’io.
Ultimamente mi son sentita risucchiata in quell’inspiegabile mania di fotografarsi con la smania di condividere lo scatto del momento con l’anonimo pubblico di un social network.
E allora mi son chiesta perché.
Cos’è che ci fa salire tutti, senza distinzione di sesso né di età, su questa grottesca giostra dell’esibizionismo e del voyeurismo a metà tra il frivolo e il patetico. Ma soprattutto, cos’è che urge dentro di noi e ci spinge all’impellenza della condivisione, calpestando il candore del pudore?
Narcisismo, forse. O piuttosto insicurezza?
Senz’altro la vanità di immortalarsi in situazioni particolarmente significative, sia esteticamente sia emotivamente, vince un po’ per tutti. Così come la sensazione di precarietà che muove il desiderio di fermare quel preciso istante scolpendolo dentro un’immagine scattata con l’apparente spontaneità di un selfie (che in realtà di spontaneo poco ha).
Eppure, inseguendo meglio questo ragionamento nato un po’ alla rinfusa, mi chiedo se non esista una spiegazione più profonda a questa forma di dilagante “vanità virtuale”.  Una spiegazione scientifica, psicologica o magari etologica.
Sì, perché questo voler esserci a tutti i costi nello spazio mediatico con la propria faccia, il proprio contorno, le proprie emozioni mi fa pensare all’istinto comune di certi animali tradotto in versione umana. L’istinto che cani e gatti maschi, in particolare ma non solo, hanno di marcare il territorio con la propria urina emanando messaggi olfattivi inequivocabili circa il loro passaggio. E’ come se anche l’animale uomo sentisse la necessità vitale di garantirsi in qualche modo un pezzetto di web, condividendo sì ma anche rubando agli altri una fettina di mondo virtuale. E non potendo ovviamente esercitare questo bisogno attraverso l’odore corporale, lo fa attraverso l’espressione dell'immagine.
“Guardate, qui sono passato io, proprio in questo istante!” pare voler comunicare l’ennesima foto scattata e postata con la velocità di un click. Le parole sarebbero più impegnative, si correrebbe il rischio che nessuno o pochi vi prestino attenzione. Ma le immagini, quelle sì che comunicano senza impegno. E immediatamente dopo la “pisciatina di sé sul web” scattano i conseguenti meccanismi emotivi, più superficiali ma estremamente devastanti e contagiosi: quelli nati dai compiacimenti pubblici, che gonfiano l’umano narcisismo, o quelli nati dall’assenza di apprezzamenti che, al contrario, alimentano l’umana frustrazione.
Di certo, forse, resta solo l’umana illusione di poter conquistare un frammento di spazio fermando il flusso del tempo, partecipando a quest’orgia collettiva di selfie. Con il rischio di dimenticare del tutto il candore del pudore.