venerdì 10 gennaio 2014

Pazza idea




Tutti abbiamo bisogno d'una valvola di sfogo.
Poco importa se resta pura fantasia, 
se è un pensiero segreto che poi non si concreta. 
Ciò che conta è che sia una pazza idea.
Un’idea che accende 
il desiderio, 
la speranza, 
la follia, 
con l’illusione che questa stessa identica pazzia 
stia nascendo nel medesimo istante 
anche nel cuore di un’altra mente. 
Lontana, che importa, tanto sente!
Allora sì che questa valvola di sfogo 
diventa una follia,
anzi ... 
una folle, folle, folle idea!
(mai stata così sana, non è una malattia)

A TUTTA BUCCIA!




LE BUCCE NELLA PERCEZIONE INDIVIDUALE
E NELL’IMMAGINARIO COLLETTIVO

E se la buccia fosse lo specchio dell’anima? Dell’anima di frutta e ortaggi, naturalmente.
La giocosa ipotesi non è poi così peregrina e merita qualche riflessione. Infatti, qual è la prima caratteristica che ci attrae o respinge nella scelta dei vegetali quando siamo al mercato o al negozio di fiducia? Innanzitutto il colore, ovvero la ‘pelle’ per così dire dei frutti della terra che, insieme alla foggia, parla di ciò che in essi è contenuto. In fin dei conti, la buccia protegge e separa l’interiorità dall’esteriorità, nasconde e allo stesso tempo rivela. Rivela per esempio l’età del vegetale, la stagione del suo percorso di vita, il suo stato di salute e di conservazione nel tempo. E’ anche vero che la ‘pelle’, o buccia, potrebbe mentire, vista l’infinità di trucchi ed espedienti che i commercianti utilizzano per mantenere e far apparire più allettanti frutta e verdura. Tuttavia questo dettaglio dell’aspetto resta il biglietto da visita del prodotto, il primo indizio cui affidarci per l’acquisto. Oggi oltretutto, al di là della pura estetica, abbiamo imparato a dare ancora più importanza alle bucce, vuoi per motivi di necessità ad evitare inutili sprechi, vuoi per una maggiore consapevolezza delle proprietà nutrizionali degli alimenti, a partire dal loro involucro naturale. Così, mentre in passato non gettare le bucce e impiegarle in cucina era segno di miseria e povertà, oggi è manifestazione di cultura e buon senso.
Collodi, che in realtà si chiamava Carlo Lorenzini, forse senza saperlo, ha dipinto in sole venti righe una profonda esperienza legata alle bucce, raccontata meglio che in tanti, estesi trattati. Tutti conosciamo la storia: un bel dì, Pinocchio torna a casa sfinito e affamato dopo una rocambolesca nottata. Ne abbozza un racconto un po' arruffato e sconclusionato, al punto che Geppetto capisce innanzitutto una cosa: che Pinocchio ha fame. Il buon nonno si farebbe in quattro per potergli cucinare chissà che cosa ma sfortunatamente ha solo tre pere da offrirgli. Dovevano essere la sua colazione, in verità, ma mosso a tenerezza gliele porge senza esitazione. “Se volete che le mangi, fatemi il piacere di sbucciarle” lo redarguisce Pinocchio con l’insolenza di un bambino capriccioso. Il povero Geppetto, un po’ avvilito, cerca di spiegargli con garbo e un'arguzia tutta toscana che in questo mondo bisogna “avvezzarsi a saper mangiare di tutto, perché non si sa mai quello che ci può capitare”. Ma evidentemente Pinocchio le bucce non le può proprio soffrire, così come non può soffrire il torsolo, che difatti sta per buttare via dopo aver mangiato con avidità la prima succosa pera, poi la seconda e infine la terza. Geppetto, tuttavia, tiene tutto, non si sa mai: bucce e torsoli. E di fatti, finite le polpose pere, Pinocchio ha ancora fame e non restano che quei rimasugli. Ebbene, prima una buccia, poi tutte e tre, poi anche i torsoli: Pinocchio divora tutto senza batter ciglio e alla fine, pacioso, “è contento da fregarsi le mani”.
L’insegnamento di nonno Geppetto è quanto mai prezioso. Non solo per lo sfrontato Pinocchio, che comincia ad essere addomesticato alle leggi della vita, ma anche per chi si fa complice della vicenda attraverso la lettura, avendo la possibilità di specchiarsi in una morale non riservata a un burattino dentro una fiaba, ma molto più vasta, addirittura universale. Rileggendo la scena scritta oltre un secolo fa e calandola ai giorni nostri, le bucce, da semplice scarto, diventano simbolo della preziosità della vita, di risorsa, di valore aggiunto. E’ quel qualcosa in più che sazia. Il gesto di Geppetto è nobile non solo perché generoso verso Pinocchio ma anche perché riconoscente verso la Natura. E Pinocchio, sfregandosi le mani, è come se inconsapevolmente condividesse questo pensiero: “Come sono stato fortunato ad avere anche le bucce, ora sì che sono sazio!”
Quest’immagine un po’ naif farà sorridere i giovani d’oggi ma, al contempo, la rivalutazione delle bucce di quelle tre pere può essere spunto per una reinterpretazione creativa degli scarti, fino a renderli appetibili e desiderabili. Una reinterpretazione gastronomica che, anziché alimentare il panorama chiassoso e opulento dell’arte culinaria cui siamo ormai avvezzi, può educare a una concezione più minimalista e raffinata di una cucina fatta col rispetto per la materia prima e l’ambiente. Ecco come la concezione delle bucce, nella percezione individuale e nell’immaginario collettivo, passa da simbolo di povertà a quello di creatività, prima, e di salute e benessere poi.
Oggi, infatti, alla necessità di un’economia domestica sempre più attenta, si aggiunge allegramente una buona dose di fantasia, assai vivace tra i nostri Chef così come tra le brave cuoche che ogni giorno si occupano della casa e della famiglia. E si aggiunge anche una sempre maggior conoscenza scientifica circa gli alimenti, perché è appurato che le bucce di frutta e verdura contengono vitamine, minerali e sostanze assai preziose all’organismo. Quindi perché gettarle, anziché sfruttarle con un pizzico di originalità? Per esempio, molti sanno che le bucce di pomodoro rosolate in forno a 80° e aggiunte alle uova per una frittata sono un’autentica delizia; così come un dado ottenuto con bucce di carota, pomodoro e peperone rallegra qualsiasi pietanza; e, ancora, che i baccelli di fave e piselli si possono trasformare in gustose vellutate.
Sono solo piccoli esempi che insegnano a sfruttare le proprietà vitaminiche delle bucce e degli scarti di frutta e verdura, e far così di necessità virtù. A conferma poi del valore salutare delle bucce, basti pensare che in quelle delle mele, per esempio, si trovano sostanze preziose come l’acido ursolico, che aiuta l’aumento del tono muscolare, antiossidanti e flavonoidi.
Nella parte scura della melanzana, invece, sono presenti sostanze con effetti benefici per l’insufficienza epatobiliare e le patologie pancreatiche e intestinali. E ancora, la buccia dell’arancia è ricca di vitamina A e di quelle sostanze aromatiche responsabili del caratteristico odore e sapore di agrume che aiutano la digestione, utilizzate anche dall’industria farmaceutica per la preparazione di digestivi e tonici. Inoltre, la parte bianca e spugnosa sotto la buccia è ricca di rutina, una sostanza che aiuta ad assimilare la vitamina C.
La scorza dell’arancio amaro poi, grazie alla sinefrina, viene utilizzata anche per produrre integratori alimentari termogenici per il dimagrimento. Molto più appetitosa, certamente, se sfruttata come guarnizione nelle famose cassate siciliane ma, evidentemente, la sua versatilità può soddisfare tutti i gusti a seconda delle esigenze. Questo è solo un assaggio a conferma di come le bucce possano essere sfruttate in cucina, insieme alla polpa o da sole, con gusto e fantasia.
Nell’immaginario collettivo, tuttavia, le bucce non hanno solo a che fare con il loro pratico impiego e le virtù che esse trasmettono, quanto innanzitutto con l’aspetto che posseggono. La famosa ‘pelle’ di cui dicevamo all’inizio. Ebbene, cosa ci dice la ‘pelle’ riguardo il vegetale che essa racchiude? Se, come Feuerbach sosteneva, noi fossimo davvero quel che mangiamo, dovremmo valutare con attenzione la buccia di frutta e verdura poiché, anche nell’eventualità di scartarla, essa nasconde e rivela ciò che poi mangeremo. Frutta e verdura sono, infatti, ‘creature’ vive. Ogni frutto della Natura è un piccolo capolavoro in miniatura, unico per foggia, dimensione e colore. In un orto non esiste una pesca, un fico, una foglia di lattuga, un cavolo o un pomodoro identico all’altro. E ognuno di essi dialoga con le molteplici e complesse sfumature dell’appetito umano, stuzzicando non solo l’acquolina in senso stretto ma evocando talvolta anche la piacevolezza estetica e persino erotica.
Non a caso – scivoliamo un attimo in tempi lontani - la statua di Priapo, figlio procace di Afrodite, si ergeva orgogliosa negli orti e nei giardini, quale custode della fertilità e dell’agricoltura. Molto spesso il simbolo si riduceva (o ampliava, secondo i casi) a un energico fallo che, come un obelisco, imperava fiero sulle colture. Il valore ispirante e simbolico del regno vegetale è dunque immenso, a partire dall’aspetto più esteriore, la buccia e la foggia: dalla mitologia alle tradizioni religiose, dall’arte alla letteratura, sono molteplici gli esempi di opere che decantano frutta e ortaggi nel loro aspetto.
Immenso è il patrimonio pittorico che ritrae i vegetali, i quali – lungi da meritarsi la definizione di Nature Morte – raccontano storie vive di sapori e sentimenti. Cosa sarebbero, per esempio, i dipinti dell’Arcimboldo senza le bucce vermiglie dei pomodoretti, le fogge bizzarre delle zucche o le superfici bitorzolute dei cetrioli? Si tratta di un vero e proprio linguaggio, spesso allusivo e talvolta grottesco, che usa la grammatica delle bucce per parlare ai nostri sensi. E cosa sarebbero i quadri di Cezanne senza quelle pesche un po’ ammaccate, poggiate su tavoli di legno volutamente sbilenchi? I colori di quei frutti paiono suggerire un sentimento d’incertezza, di vaga decadenza, perché così maturi sono in bilico nel tempo, proprio come le superfici dei tavoli che a tratti non combaciano con le quattro gambe. Pare d’immergersi nello scorrere di una giornata qualunque e, insieme, nello stesso scorrere della vita, con quell’odore d’autunno che emana denso dai frutti.
Anche la letteratura ha saputo cogliere finemente i significati più archetipici delle bucce. Collodi a parte, che con la sua umanità resta immortale, ci pensa Erica Jong a svelarci il volto sensuale di certi vegetali altrimenti considerati banali alimenti quotidiani. La cipolla, per esempio, è decantata dalla scrittrice americana in maniera davvero deliziosa e sono proprio gli strati di ‘pelle’, o di buccia, a rendere l’odoroso bulbo sensuale: “E non posso fare a meno di pensare alla cipolla, con le sue due bocche ad O, come i grossi buchi in nessuno. Alla sua pelle esterna, marrone rosato, pelata che lascia intravedere una sfera verdastra, spoglia come un pianeta morto, liscia come il vetro, e il suo odore quasi animale. Considero la sua abilità di strappare le lacrime, la sua capacità di autocritica, scorticandosi, strato dopo strato, in cerca del suo cuore che non è altro che un’altra area di pelle, ma più profonda e più verde. Ricordo Peer Gynt; ripenso al suo, a volte, duplice cuore. E poi penso alla disperazione quando la cipolla
cerca la sua anima e trova soltanto le sue tante pelli; e penso al ciuffo di radici secche che non portano da nessuna parte e l’ombelico assetato, reciso in giardino. Non è moralista come la patata proletaria, o sirena come la mela. Non è ostentatrice come la banana. Bensì un vegetale modesto, schivo, indagatore, introspettivo, che spoglia se stesso, o semplicemente irradia aloni come increspature su un lago. La considero l’eterno estraneo, il figlio di mezzo, il triste paziente dall’analista del regno vegetale. Glorificata solo in Francia (altrimenti silenziosa sostenitrice di minestre e stufati), non amata per se stessa - non c’è da meravigliarsi che ci porti alle lacrime! E poi ripenso a come la buccia esterna assomigli alla carta, come anima e pelle si fondino fino a diventare un tutt’uno, come ogni singolo strato scopra un cuore
che a sua volta diventa pelle ...”
(tratto da “Fruit and Vegetables”).
Se l’arte e la letteratura sanno cogliere la bellezza delle bucce condendola con stuzzicante fantasia, sono i filosofi, prima, e gli studiosi, oggi, ad aiutarci a capire perché le bucce sono importanti e dunque utili.
Schopenhauer, ad esempio, sosteneva qualche cosa di molto vero e soprattutto di molto attuale circa il benessere derivato dall’alimentazione. Con evidente acume, disse che “nove decimi della nostra felicità si basano sulla salute. Con questa, ogni cosa diventa fonte di godimento”. Ma che cosa intendeva esattamente per salute? E cosa intendiamo oggi noi con questa parola che nei secoli ha adeguato il suo significato alla crescente complessità della società? Se un tempo per salute s’intendeva sinteticamente assenza di malattie, oggi il concetto è molto più articolato. Si preferisce parlare di benessere in riferimento allo stare bene non solo fisicamente, nel corpo, ma anche psicologicamente, nel cuore e nella mente. Sta di fatto che il benessere comincia dalla tavola e questa convinzione, tipica del pensiero occidentale, resiste sin dai tempi d’Ippocrate, quando il medico era, guarda caso, innanzitutto un esperto di alimentazione. Se è vero che siamo ciò che mangiamo, è altresì vero che non solo il nostro corpo – fatto di muscoli, pelle, ossa, fibre, sangue, cellule, molecole e atomi – è il risultato di un’alimentazione possibilmente sana. Ma lo è anche il nostro cuore, appunto, inteso in senso metaforico e poetico, come la sintesi dello stare bene umorale, affettivo e sociale. E lo è, a maggior ragione, il nostro cervello, concepito non solo come marchingegno chimico ed elettrico ma soprattutto come motore pensante che traduce l’energia in ragionamenti, emozioni, ricordi e sogni. Perciò, oggi, a un concetto di salute essenzialmente organico, focalizzato sulla quantità e sulla sostanza degli input che ingeriamo e assimiliamo, si aggiunge un concetto più spirituale, olistico, basato sulla qualità, sulle virtù nascoste e le proprietà intrinseche che tali input hanno. L’idea di salute occidentale s’intreccia, così, a quella più squisitamente orientale che esalta l’armonia tra corpo e ambiente, tra Uomo e Natura, abbracciati in un continuo scambio in cui nulla viene perso e tutto si rinnova, cresce e si trasforma, modificando contemporaneamente l’essere umano e ciò di cui esso fa parte.
Cosa c’entrano le bucce in tutto questo? C’entrano eccome, perché se da un lato recuperarle significa evitare sprechi, dall’altro significa godere delle loro virtù. Quindi trarne benessere e salute, più o meno nell’accezione di Schopenhauer.
I vegetariani, ma non solo, lo sanno bene: mangiare cibi ‘puliti’, completi, genuini direttamente prodotti dalla terra, ci fa sentire in armonia con la stessa terra, con gli altri e con noi stessi. Anche il vocabolario utilizzato per definire la ‘bontà’ dei cibi, oggi, è sintomatico di questa nuova concezione olistica della salute. Un cibo oggi è considerato tanto più salutare quanto più è fresco, puro, vergine, leggero, antiossidante, vitaminico, disintossicante, depurativo, energizzante. Tutti attributi impalpabili e invisibili, che riconducono a benefici concreti. Frutta e ortaggi sono per definizione, quindi, i simboli di un’alimentazione pulita e trasparente, che ci fa sentire e stare bene e la loro ‘pelle’ ci dà la prima misura di tale benessere. 
La Natura all’opera nel mondo ortofrutticolo, oltretutto, è straordinaria, sia a livello microscopico che macroscopico, perché contiene potenzialmente tutto e in essa tutto ha un significato. Vi siete mai chiesti, per esempio, perché frutta e verdura hanno in genere colori così accattivanti? Che voi crediate in Dio, nell’Evoluzione o semplicemente al caso, l’invitante bellezza dei vegetali è uno straordinario esempio della saggezza della Natura e il nesso tra il colore delle bucce e la salute dell’essere che se ne nutre è scientificamente provato.
I colori delle bucce derivano, infatti, da una varietà di sostanze chimiche, gli antiossidanti. Le piante, in questo, somigliano alle donne: esprimono la propria bellezza colorandosi. Noi donne lo facciamo con rossetti, trucchi e meches, le piante usano il sole. Catturano l’energia solare e la trasformano in vita tramite la fotosintesi, che muta tale energia in zuccheri semplici e poi in carboidrati complessi. Il tutto è azionato dallo scambio di elettroni tra molecole, rendendo il processo di fotosintesi simile a un reattore nucleare. Per semplicità, si usa distinguere cinque famiglie di colori, in cui ogni vegetale esprime, attraverso la pigmentazione, le proprie qualità. Quindi, anche attraverso il colore, le bucce parlano: vediamo cosa dicono.   
Partiamo dal rosso. Lazione antiossidante dei vegetali rossi è dovuta in particolare a due pigmenti, il licopene e le antocianine. Il licopene pare sia un potente scudo contro i tumori al seno, alle ovaie e alla prostata. Le antocianine, presenti in gran quantità nell'arancia rossa, per esempio, sono un utile alleato nella prevenzione della fragilità capillare, dell'arteriosclerosi e nel potenziamento della funzione visiva. Tra i vegetali rossi più comuni e più gustosi, oltre all’arancia, ci sono l’anguria, la barbabietola rossa, la ciliegia, la fragola, il pomodoro, il ravanello e la rapa rossa.
Il giallo-arancio: la sostanza protettiva più conosciuta dei vegetali di questo colore è il betacarotene. Ha una potente azione antiossidante ed è precursore della vitamina A, importante per il sistema immunitario e per la vista nella crescita, nella riproduzione e nel mantenimento dei tessuti. Anche i flavonoidi concorrono alla colorazione solare dei vegetali, tra cui spiccano l’albicocca, la solita arancia, la carota, il cachi, il limone, il mandarino, il melone, la nespola, il peperone, la pesca, il pompelmo e la zucca.
Il verde: qui è regina la clorofilla, sostanza che ha anch’essa una potente azione antiossidante. Ma ci sono anche i carotenoidi, la cui insufficienza pare esporre a un maggior rischio di malattie, per esempio del sistema cardiovascolare e di tipo tumorale. Sempre i carotenoidi sono coinvolti nella vista, nello sviluppo delle cellule epiteliali e in generale nell'invecchiamento. Gli ortaggi a foglia verde sono una preziosa fonte anche di acido folico e di folati, sostanze preventive contro malattie cardiovascolari, il cui deficit in gravidanza è responsabile di una grave malattia del neonato, la spina bifida. Tra i vegetali verdi più belli e buoni vi sono gli asparagi, il basilico, la bieta, i broccoletti, i broccoli, il carciofo, la cicoria, la cima di rapa, l’indivia, il kiwi, la lattuga, il prezzemolo, gli spinaci e la zucchina.
Il blu-viola: racchiuse in questo magico colore ci sono le antocianine, presenti anche nei vegetali rossi, utili nella prevenzione dei disturbi della circolazione del sangue, della fragilità capillare e dell'arteriosclerosi. Il blu-viola è ricco anche di molti carotenoidi, vitamina C e fibre. In più, contiene il resveratrolo, presente nell'uva nera, sostanza cui sono attribuiti in termini salutistici maggiori vantaggi del vino rosso (vinificato con le bucce) rispetto al vino bianco (vinificato in assenza di bucce). Il blu-viola sembra essere un colore nemico di alcuni tumori e infezioni del tratto urinario, nonché amico della vista, della pelle e della regolarità intestinale. Tra i vegetali blu-viola, ecco il fico, i frutti di bosco, la melanzana, la prugna, il radicchio e l’uva nera.
Infine, il bianco. Nella gamma cromatica è la somma di tutti i colori: frutta e ortaggi del gruppo bianco sono ricchi di isotiocianati, che prevengono !'invecchiamento cellulare. Aglio, cipolla e porro in particolare contengono allilsolfuro, che rende il sangue più fluido e meno incline alla formazione di trombi, aiuta nella prevenzione di alcuni disturbi cardiovascolari e, forse, di alcune forme di tumore. Presenti anche antiossidanti come i flavonoidi e la quercetina, fibre, sali minerali come potassio e vitamine come la C. Tra i bianchi di maggior spicco: oltre ad aglio, cipolla e porro, sono un toccasana il cavolfiore, il finocchio e il sedano.
Il problema di noi esseri umani è che non siamo in grado di produrre scudi naturali per difenderci dai radicali liberi. Non siamo piante, non siamo in grado di compiere la fotosintesi, perciò non produciamo antiossidanti. Sono i vegetali a fornirceli: frutta e verdura, una volta ingerite, agiscono in armonia con il nostro organismo e rilasciano tutto il bene che contengono, molto del quale è racchiuso nella buccia. Un bene che non è solo chimico ma anche psicologico. Pensate a tutta quella gamma che va dal verde tranquillizzante al rosso eccitante, dal viola misticheggiante al marrone inquietante: una scala cromatica che riflette tutte le stagioni del cuore (oltre che della natura) e dialoga direttamente con la nostra psiche. Probabilmente, lasciandoci guidare dalla voglia di colore nella scelta della spesa e del pasto, inconsapevolmente soddisfiamo anche esigenze fisiologiche e psicologiche, non solo estetiche. In altre parole, se al mercato ci sentiamo inspiegabilmente attratti da una bella zucca arancione, forse, è perché il nostro organismo necessità di un po’ di flavonoidi e ce lo chiede così, guidandoci al consumo. A tal proposito, anche la buccia coriacea della zucca trova impiego, perché è utilizzata per costruire strumenti a percussione. Della serie, anche della zucca non si butta via niente.
Ma il bisogno dell’intelletto umano di leggere un’interiorità delle cose attraverso l’esteriorità non è nuovo. Le bucce dei vegetali rappresentavano oggetto d’interesse già molti secoli fa. Infatti, nel Medioevo era diffusa una dottrina spirituale che coglieva e interpretava una corrispondenza tra le caratteristiche fisiche dei vegetali e le loro virtù intrinseche. Paracelso e i suoi allievi, tra cui Osvaldo Crollio - chimico cabalista tedesco - avevano formulato la “teoria delle segnature”. Secondo tale dottrina, ogni caratteristica fisica di piante, erbe, frutti o ortaggi erano precisi segnali che la Natura esprimeva per rispecchiare le proprietà nascoste in ognuno di essi. Sposando il principio aristotelico per cui la Natura non fa nulla di inutile, e ispirandosi probabilmente alle precedenti teorie di Plotino e Galeno, Crollio era così affascinato dalla varietà di fogge e colori del mondo vegetale da convincersi che non fossero casuali. La sua ipotesi fu, dunque, che i ‘segni’ manifesti di ogni vegetale fossero lo specchio della loro intima essenza e l’uomo aveva il privilegio di scoprire tali virtù per sfruttarle e consumarle a suo beneficio.
Ad esempio - secondo la segnatura del colore - le piante che producevano fiori gialli, come la calendula, erano utili per curare l’ittero, che notoriamente si manifesta con un colorito giallognolo sulla pelle; mentre le foglie, i semi e i fiori dell’iperico, messi a macerare in olio d’oliva al sole, offrivano un unguento di colore rosso acceso, utile per curare le ferite. Secondo la segnatura della forma, invece, era la foggia a suggerire quale parte del corpo potesse essere curata dal vegetale. La peonia, ad esempio, provvista sulla sua sommità di un pistillo a forma di cervello, veniva utilizzata per curare le malattie cerebrali; l’equiseto, detto anche coda cavallina proprio per la sua fisionomia, veniva impiegato per lenire i dolori alla colonna vertebrale; ancora, l’iperico, con le sue foglie perforate, era utile come cicatrizzante; la noce, evocando il cervello, veniva utilizzata per curare gli stati d’ansia e l’insonnia, quindi per calmare la mente; le foglie di eucalipto, che per la foggia affusolata ricordano i lobi polmonari, erano balsamiche per le vie respiratorie e gli stati d’asma. E così via, in un variopinto susseguirsi di evidenti analogie, molte delle quali col tempo si sono dimostrate corrette intuizioni.
Parallelamente a Crollio, un altro fisico napoletano allievo di Paracelso – Giambattista Della Porta – sintetizzò i segreti dell’universo vegetale in un trattato dal titolo “Magia Naturale”. Era curioso di tutto, dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande e i suoi studi sull’ottica hanno, tra l’altro, contribuito all’invenzione della camera oscura e alla costruzione del primo telescopio. Molti erboristi del Medioevo erano, infatti, anche appassionati astronomi e cercavano di elaborare un sapere universale, cogliendo le corrispondenze tra i pianeti e i segni dello zodiaco (il mondo celeste), le piante e gli animali (il mondo terrestre) e le diverse parti del corpo suscettibili di malattie (il microcosmo umano). Tra parentesi, quest’ardita fame di sapere non faceva piacere alla Chiesa e, infatti, lo stesso Della Porta fu perseguitato dall’Inquisizione per aver fondato l’Accademia dei Segreti, votata appunto all’esplorazione dei segreti del cosmo. Alle persecuzioni è tuttavia sopravvissuta l’idea che la Natura costituisce un ‘tutto’ completo e perfetto, incomprensibile solo per via dell’ignoranza e della cecità degli uomini stolti. In fin dei conti, anche se ancora confuse in un’aura di mistica magia, qui s’intravedono le basi filosofiche di quella che è la moderna ecologia. E di fatti, tornando ai giorni nostri, con le bucce non solo s’inventano gustose ricette in cucina ma si risolvono anche tanti piccoli problemi di economia domestica, senza ricorrere a prodotti artificiali magari costosi e in qualche modo dannosi. Basti pensare agli impieghi delle bucce per pulire vetri, specchi e pavimenti, lucidare scarpe e mobili, deodorare gli ambienti, rendere più brillante l’argenteria e levigata la pelle. Ma tutto questo meriterebbe un libro a parte.
Alla luce di ciò, vien facile immaginare quale attrattiva avessero nell’antichità le bucce dei vegetali per gli studiosi del mondo naturale e quanto noi abbiamo ereditato dalla loro pratica saggezza. Ed è sorprendente constatare quanta strada abbiano fatto le bucce nei secoli – senza farci scivolare! - sia nell’utilizzo quotidiano, sia nell’immaginario collettivo, riscattandosi da scarto senza pregio a nobile virtù.