giovedì 24 aprile 2014

OH CCHE CICCIA, OH CCHE ONTI! OVVERO, ECCO LO STREET FOOD!




E’ proprio vero che c’è ben poco di nuovo nelle mode. Per la maggior parte esse non sono che la rivisitazione di una tradizione, riciclata e battezzata con qualche buona dose di fantasia. Anche a tavola, o meglio in questo caso anche … per strada!
Sì, perché il cosiddetto “street food” tanto in voga oggi, sostenuto anche da grandi chef che propongono creazioni gastronomiche originali da consumare passeggiando per strada, altro non è che un ripescaggio di antiche usanze, dettate (al contrario di oggi) dalle ristrettezze economiche della gente comune.
A Roma, per esempio, fino agli inizi del secolo scorso, era sopravvissuta una forte componente popolaresca, inventata proprio dall’estro della povera gente, costretta a fare i conti con la miseria, le carestie, le pestilenze e le guerre, tutte situazioni non solo contingenti ma anche psicologiche ereditate dal passato. Condizioni che hanno tuttavia insegnato a cavarsela, ingegnandosi per sopravvivere al meglio. E per sopravvivere bisogna innanzitutto mangiare! Recuperare generi commestibili di scarto, riutilizzare tutto l’utilizzabile, usarlo per proprio consumo e venderlo agli altri per le strade della città era uno dei modi in cui la povera gente si industriava quotidianamente per vivere dignitosamente.
Così, Roma s’è divisa a lungo in due mondi (e forse lo è ancora): quello dei ricchi signori, degli aristocratici e delle corti papali che gozzovigliava senza ritegno, e quello della gente comune, povera o poverissima che se la doveva cavare con grande fantasia, appunto. Da necessità, virtù, perché come se dice a Roma “la fame è la mejo pietanza!”: i venditori ambulanti, infatti, perfezionarono sempre più il mestiere, vendendo per le strade romane cibi preparati con gli scarti delle tavole dei ricchi. Le frattaglie sono solo un esempio, rese gustose e succulente da ricette robuste e ricche di carattere, per corroborare corpo e spirito di chi purtroppo ne mancava. L’usanza di vendere cibo per strada era una risorsa indispensabile per la povera gente che riusciva così a risolvere in modo rapido ed economico il problema del pasto quotidiano (perché se oggi questo è un piacere, uno sfizio, un capriccio, fino a ieri era spesso un vero problema!).
E’ incredibile pensare che fino ai primi anni del secolo scorso i venditori di avanzi giravano per le strade di Roma con un lungo recipiente rettangolare in legno, tenendolo in bilico sulla testa, traboccante di ogni sorta di cibarie. L’attenzione della gente veniva richiamata con un grido: “Oh cche ciccia, oh cche ònti! … Trippa, peducci e tutto er grugnaccio!” Così il “tripparolo” sottolineava il ricco assortimento di trippa, testa e piedini di vitello lessati e pronti da mangiare. Secondo la stagione, ai tripparoli si alternavano ciambellani, pescivendoli, melacottari, peracottari, cocomerai, acquavitai, olivari, e così via, in un susseguirsi di cibi, odori, colori e grida che se allora rappresentavano la normalità oggi sembrano appartenere a un nostalgico amarcord felliniano. C’era persino il capraio che arrivava all’alba con il suo gregge e mungeva il latte in strada direttamente nei recipienti delle massaie, richiamate a frotta dal suo acuto fischio. E così la giornata poteva cominciare per tutti con la pancia un po’ piena e magari un bel sorriso …
Ben vengano, quindi, gli sfiziosi chioschi di “street food” magistralmente diretti da ambiziosi chef stellati. Non dimentichiamoci, però, che spesso anche le improvvisazioni più creative e innovative vengono da molto lontano, lontano nel tempo e soprattutto dalle luci della ribalta!   

sabato 19 aprile 2014

“ER COMINCIO DE LI MARITOZZI”



Ogni volta che vado a Roma imparo qualcosa. Anche a tavola.
Per esempio, fino a ieri non conoscevo la lunga storia che accompagna uno dei dolci più comuni qui - il Maritozzo – un soffice panino ovale, dorato e profumato, spesso ripieno di panna, tanto goloso nell’aspetto quanto curioso nel nome.
Ebbene, ho scoperto che l’origine dei Maritozzi risale alla tradizione popolare nell’antica Roma di rendere più prezioso il semplice pane grazie all’aggiunta di un tocco di fantasia e di ingredienti dolci, come il miele, l’uva passa, la marmellata o la frutta secca, soprattutto in occasione di certe festività religiose.
Quest’usanza s’è protratta per secoli e nel Medioevo questi piccoli panini dolci e nutrienti servivano in particolare a rendere più sopportabile la dovuta astinenza durante la Quaresima, periodo al quale sono poi sempre rimasti associati.
Il nome attuale, spregiativo popolaresco di marito, si diffuse nell’Ottocento quando, secondo un’usanza popolare, nel periodo della Quaresima, esattamente il primo venerdì di marzo, quale antesignano di San Valentino, i fidanzati usavano offrirne uno alle future spose, in segno di corteggiamento e di invito a scambi d’altre dolcezze. Quei maritozzi, a differenza di oggi, avevano una particolarità: la loro forma era ispirata in maniera molto esplicita a Priapo, stuzzicando appetiti che volevano andare ben oltre quelli della gola! Questi ‘dolci falli’ divennero poi ovali e alla foggia eroticamente allusiva sostituirono un’altra intima sorpresa, decisamente più romantica: all’interno dell’impasto celavano spesso un anello o un piccolo gioiello, ragion per cui talvolta erano modellati a forma di cuore e guarniti con bianche colombelle di zucchero.
In tempi più recenti, quando ancora i negozi non erano stati colonizzati da centinaia di merendine industriali, il Maritozzo rappresentava per il bambino romano l’oggetto del desiderio capace di soddisfare con genuina bontà la golosità infantile. Questo dolce era così ambito e diffuso che un poeta romano ottocentesco, Adone Finardi, gli dedicò un poemetto dal logorroico titolo: “Er viaggio der cavajer Ojo a Roma cor su scudiere Sale Magnatutto o per dì mejo er fine der comincio de li maritozzi”:

Prese fiore, pignoli e passerina,
zucchero, cannito e zibibbetto,
acqua e levito; e in quanto a la cucina
si servitte del forno e legno schietto;
impastò, cicinò; da Mari e Tozzi
je dette er nome poi de Maritozzi:
ed ecco come questi principi orno
che poi a nuantri vennero passati
da nonno, da bisnonno e arcibisnonno;
e da quer giorno furno sempre usati
da fasse a la Quaresima d’ogn’anno
giorno che de quei re finì l’affanno.
La storia ecchene quane spifferata
Come li maritozzi so nasciuti.

Decine di ricettari raccontano le infinite varianti dei Maritozzi, da quelli fini e glassati a quelli ordinari, da quelli al burro a quelli all’olio, da quelli ripieni alla panna a quelli con l’uvetta. Ma la ricetta originale eccola qua, pescata tra le pagine di un libro delizioso tutto dedicato alla romanità a tavola, “Er mejo de la cucina romana” di Lajla Mancusi Sorrentino:

Ingredienti
250 g di farina bianca
3 cucchiai di zucchero
1 uovo
30 g di zibibbo
20 g di pinoli
40 g di scorze d’arancia candite
1 dado di lievito di birra
mezzo bicchiere d’olio extravergine d’oliva
sale

Preparazione
Impastare a lungo il dado di lievito con 50 g di farina, un uovo, un cucchiaio d’olio e un pizzico di sale. Coprire l’impasto e farlo lievitare in luogo tiepido. Metterlo poi sulla spianatoia e amalgamarvi il resto della farina, lo zucchero, 50 g  d’olio, un pizzico di sale e poca acqua tiepida per ottenere un impasto piuttosto morbido. Lavorarlo a lungo, incorporarvi lo zibibbo fatto rinvenire in acqua tiepida, strizzato e infarinato, i pinoli e la scorza d’arancia candita. Dividere infine la pasta in pezzi grandi come un uovo, formando dei panini ovali (o come piace a voi!) allinearli su una teglia unta, coprirli con un tovagliolo e farli crescere finchè, gonfiandosi, avranno raddoppiato il loro volume. Cuocerli in forno già caldo a 200 gradi per una decina di minuti, quando saranno dorati spennellarli rapidamente con uno sciroppo ottenuto facendo bollire un paio di minuti 2 cucchiai di zucchero con uno d’acqua. Rimettere i Maritozzi così spennellati in forno per altri 2 minuti affinchè la glassa asciughi. Dopo di che saranno pronti a deliziarvi!
Il massimo, naturalmente, sarebbe gustarli direttamente a Roma, possibilmente in compagnia di un bel romano Doc.!   

domenica 13 aprile 2014

La cartolina



“Qui si vive solo di sole, mare e musica, forse per questo sono felice … non tornerei più!”
Queste sono le parole scritte, con una grafia fanciullesca in inchiostro verde, su una cartolina sbiadita dal tempo, proveniente da Trinidad e Tobago. Una cartolina che fa ancora da segnalibro a un vecchio saggio di filosofia, evidentemente ancora attuale, visto che è saltato fuori dalla polvere dopo tanti anni, portando con sé quest’inatteso messaggio sopravvissuto all’età.
Quella cartolina, io la ricordo bene. Ricordo il momento esatto in cui l’avevo scritta, una sera sulla veranda di legno della mia stanza affacciata sul mar dei Caraibi, sopraffatta dall’incanto di una natura che mi avrebbe stregato e drogato per sempre. Avevo 15 anni allora e indirizzavo quelle nostalgiche righe a colui che sarebbe diventato, qualche anno dopo, mio marito.
Oggi, a distanza di così tanti anni, ahimè, rileggendo quelle parole adolescenziali piene di sogni, di speranze e di inconsapevole determiazione, mi rendo conto di quanto sia effimero il tempo… di quanto sia ingannevole darsi da fare per crescere sperando forse di cambiare… di migliorare…di diventare saggi indossando maschere per sedurre gli altri e abbellire noi stessi….. La natura, quella della nostra personalità, quella più intima e archetipica, ci possiede e per quanto ci si sforzi a domarla, a educarla, a plasmarla, essa prima o poi si ripresenta alla nostra razionalità, beffarda e insolente, ci punta il dito in faccia, sorniona, e ci dice: “Bhe… dove credevi di andare senza di me? Dove hai corso finora? Io sono te, vivo dentro di te, non sfuggirmi, vivimi, insieme andremo d’accordo, solo accettandomi potrai essere felice!”
Dopo tanti anni, infatti, io sono esattamente la stessa creatura che scriveva quella cartolina. Dopo tanti anni di lavori psicologici forzati dettati dalla razionalità, dall’educazione e dalla formalità, insisto a pensare che laggiù, lontano, dove mi sento a casa, dove si vive solo di sole, mare e musica, si potrebbe essere felici!
Oggi, così come a 15 anni, continuo ad assecondare la mia natura, ostinata e fiera, selvaggia e ribelle, in una miope illusione di libertà, forse, cui tuttavia non posso rinunciare: pena la morte!
Oggi, a differenza dei miei 15 anni, non scrivo più cartoline con inchiostro verde, tutt’al più mando una email a chi, come allora, con paziente rassegnazione, mi aspetta sperando, forse, che prima o poi io possa tornare per sempre e fermarmi una volta per tutte, finalmente. E così, mi specchio nel riflesso del mio animo e lo vedo luminoso, colorato, pieno di sogni, di speranze e di consapevole determinazione, mentre fuori tutto pare spento e grigio. E allora mi domando chi, in verità, vive di illusioni ….  
Intanto, ripongo il vecchio libro di filosofia nello scaffale perché possa custodire per sempre quella cartolina insieme al suo lungimirante messaggio, e nel frattempo preparo la valigia per il prossimo viaggio… mi dispiace, la natura mi chiama!  

sabato 12 aprile 2014

La differenza




L’Amore senile è totale.

Acerbo come quello di un fanciullo 
e maturo come quello di un saggio.
La differenza?
Il tempo che resta ... non l’esperienza.

giovedì 10 aprile 2014

UN SOFFIO D’ARTE



MURANO, L’ISOLA DI VETRO

Da mestiere popolare ad arte raffinata: nel cuore della Laguna di Venezia si tramandano i segreti per produrre i cristalli colorati famosi più famosi al mondo


Uno dei volti più attraenti della Laguna di Venezia è quello che sposa arte e storia, un invito al piacere non solo estetico ma anche culturale. E tra questi, uno tra i più famosi al mondo è senz’altro quello dell’arte di soffiare il vetro, legato in particolar modo all’isola di Murano.
Un gesto apparentemente semplice, un soffio nel vetro incandescente, è diventato nei secoli la quintessenza di un immenso tesoro. "Vetro soffiato": viene chiamato così, perché gli artigiani lo modellano in infinite fogge soffiando un calibrato vigore all'interno di una lunga canna, con una maestria che dà la sensazione di trattarsi di magia, anziché di lavoro. Qui a Murano, le origini dell’arte vetraria si perdono nella notte dei tempi e la tradizione sopravvive rinnovata dall’estro degli artisti più giovani. Alcuni scavi archeologici testimoniano come quest’attività fosse già diffusa nel VII secolo a.C., sia a Torcello sia a Murano. Fu però nel XII secolo che l’arte del vetro cominciò a definirsi come attività manifatturiera organizzata e andò concentrandosi definitivamente a Murano. In seguito, le tecniche si sono affinate grazie ai contatti commerciali  che i Veneziani stringevano con l’Oriente e, soprattutto, con i popoli di antica tradizione vetraria come i fenici, i siriani e gli egiziani. Questa fratellanza culturale e artistica tra Venezia e l’Oriente ha pertanto reso unica al mondo l’arte vetraria della Laguna.
L’ISOLA DI MURANO
La vecchia Amurianum - così era denominata l’isola – ha sempre goduto di grande prestigio tanto da vantare una forte indipendenza dalla Signoria. Tale privilegio le venne assegnato proprio in virtù delle fornaci per lavorare il vetro e per la conseguente rilevanza economica. Con l’editto dogale promulgato dal Doge Tiepolo nel 1291, l’isola di Murano fu dichiarata vera e propria area industriale e divenne la capitale della produzione vetraria mondiale. Il mestiere era considerato strategico, tanto che severe sanzioni ne vietavano l’esercizio a chi non fosse iscritto all’arte e a chi volesse trasferirsi all’estero. L’importanza dell’isola di Murano è testimoniata anche dall’affinità morfologica con Venezia di cui ricalca gli stessi campi, calli e rii interni. La produzione vetraria, inizialmente, era in gran parte di carattere utilitario e di serie, concentrata su oggetti di uso quotidiano come bottiglie di vino e da olio, bicchieri, lampade e così via. Tuttavia, venivano prodotti anche oggetti con funzioni decorative, legati a un simbolismo spirituale e religioso. Oggi, l’arte vetraria di Murano non ha confini e abbraccia ogni foggia, sacra e profana, che l’umana fantasia possa immaginare.
LA FABBRICA COLLEONI
A pochi minuti di barca dall’Isola della Giudecca si approda a una delle più note fabbriche del vetro della Laguna, la Fabbrica Colleoni. Nata dall’operosità di Luigi Moro, la vetreria vanta una lavorazione del vetro apprezzata in tutto il mondo, grazie alla collaborazione del maestro Alessandro Barbaro. La concezione del vetro della famiglia Colleoni è sempre stata diversa da quella tradizionale, attingendo non solo al passato ma ispirandosi alla contemporaneità. Forte di un piglio innovativo, la fabbrica Colleoni ha aperto l’orizzonte a giovani maestri e artisti per creare una linea estrosa e moderna. Anche per questo è interessante visitarla, con la possibilità di frequentare workshop creativi in cui imparare il mestiere, per diventare protagonisti di questa preziosa arte secolare. Ammirare come nasce un'opera d'arte da una semplice bolla incandescente è, infatti, emozionante soprattutto conoscendo tutta la storia che quel soffio leggero contiene.

(per la rivista Aurum)