venerdì 31 gennaio 2014

"Ogni lavoro è arido se svolto senza amore"


DALLA TERRA DOVE ULISSE FU STREGATO DA CALIPSO, LA FAMIGLIA CERAUDO STREGA I SENSI CON OLIO E VINO DEGNI DI OMERO


In balia di un clima economico altamente instabile che rischia di portare alla deriva anche le più tenaci resistenze, esistono alcune realtà italiane che sfidano con successo le intemperie congiunturali. Mi riferisco a quel mondo che ha saputo trasformare la ruralità in imprenditorialità, e l’amore per la terra in business di qualità. Una di queste realtà viene dalla Calabria, precisamente da Strongoli, in provincia di Crotone, dove la Famiglia Ceraudo ha stretto una rispettosa alleanza con il territorio, indovinandone la severità ma anche la generosità. Lungo i crinali di questa terra che, morbidamente e senza fretta, si versano nell’azzurro Mar Ionio, s’intuiscono le gesta di Ulisse stregato da Calipso, ninfa dalle crespe chiome narrata da Omero, e si odono i profumi della vite e dell’ulivo, tanto cari a Plinio. Il mare è così vicino da sentirne la brezza all’aurora, e il fruscio della risacca nelle quiete sere d’estate è una poesia che sfiora la leggenda. Qui non intervengono severi sbalzi termici da nuocere alle coltivazioni, ogni chicco d’uva e ogni oliva hanno il privilegio di maturare sotto i raggi ruggenti di un sole che si protrae anche oltre la stagione estiva. È in questi luoghi ameni e terreni, l’antica Petelia, oggi Strongoli, che la Famiglia Ceraudo ha deciso di consacrare la propria vita alla produzione del vino e dell’olio. Era il 1973, quando decise di acquistare la tenuta appartenuta ai Principi Campitello e Pignatello e in seguito ai Baroni Giunti, con il casolare del 1600. Nello stesso anno sono cresciuti, accanto agli ulivi secolari, i primi vigneti, da cui con tenacia e sacrificio è nato il primo vino. Oggi l’Azienda Agricola Ceraudo si estende su 60 ettari, di cui 38 coperti da uliveti, 20 da vigneti e 2 da agrumeti.
“Ogni lavoro è arido se svolto senza amore” ha ammesso con orgoglio Roberto Ceraudo, il quale ha saputo trasmettere questa semplice ma preziosa eredità ai suoi figli, Giuseppe, Susy e Caterina che, insieme, rappresentano la squadra vincente dell’azienda, ognuno con un ruolo diverso ma tutti con lo stesso obiettivo: continuare, portare avanti quello che in origine era solo un sogno ma che col tempo s’e’ trasformato in realtà.
Ma i sogni, si sa, non si realizzano senza tanta buona volontà. Ecco dunque che c’è voluta l’esperienza, il rigore e la passione umana per ottenere dalla terra i potenziali doni desiderati e sfidare con successo gli andamenti del mercato. I vigneti e gli uliveti sono coltivati senza l’invadenza di prodotti chimici, difesi dai parassiti con capannine meteorologiche e trappole di ferormoni a richiamo sessuale. Questo è un esempio di come si possa sfruttare la natura per preservare la natura stessa. Tutte le fasi della produzione vengono gestite internamente, ricalcando un microsistema simile a quello in uso nelle vecchie fattorie.
Il risultato non si può esprimere pienamente a parole, occorre l’assaggio, possibilmente approfittando dell’agriturismo e del ristorante dell’Azienda. Innanzitutto i vini, carichi di profumi, persistenti e freschi, in cui il sole, la frutta e i fiori primeggiano al palato regalando emozioni degne di un racconto omerico: i rossi Dattilo, Doro Be, Petraro; i bianchi Grisara, Petrella, Imyr; i rosati Grayasusi (etichetta argento) e Grayasusi (etichetta rame). E poi l’olio. Il pluripremiato Ceraudo, frutto dell’agricoltura biologica, dal sapore fruttato lievemente amaro e piccante, con sentori di mandorla e rosmarino è un piacevole stupore. Anche in questo prodotto, alla ricchezza del terreno si mescola la sapienza dell’uomo: “C’è sempre un periodo nell’anno in cui la pianta esprime le sue migliori qualità organolettiche ed è il momento in cui intervenire, anticipando la raccolta per prevenire alcuni parassiti. Componente fondamentale è anche il clima asciutto che limita la presenza della mosca olearia, ma anche l’utilizzo di tecnologie d’avanguardia, che permettono di ottenere il migliore olio in Calabria. Un prodotto naturale per antonomasia ... Come l’acqua che si attinge alla sorgente, dall’oliva, l’olio!”

giovedì 30 gennaio 2014

Amenità



Quando si sta poco bene, capita di sprofondare in una sottile soglia al limite della coscienza in cui il malessere si confonde col benessere. 
E’ quando, per esempio, si soffre di una lieve influenza, in cui pochi gradi di temperatura in più non portano con sé solo la febbre ma anche ricordi, immagini e parole lontane.
Un pianto di una bambina per il mal di pancia, il sapore di uno sciroppo troppo zuccherino, la mano della mamma sulla fronte calda, l’imbarazzo di un padre timoroso della propria impotenza, lo sguardo benevolo di chi ci ha voluto bene e che, come per magia, tutt’a un tratto ritorna a confortarci in questo languido indolenzimento del corpo. 
Ecco, quando si sta così, 'poco' bene, si torna bambini, con la naturale necessità di crogiolarsi in un ideale guscio uterino forse mai dimenticato, caldo e protettivo. Si assapora tutta la preziosità della casa e della famiglia, troppo spesso date per scontate nel frettoloso via vai quotidiano. E vien voglia di dir grazie.
Dovremmo ricordarcene anche quando si sta 'tanto' bene, quando la febbre passa e il languore svanisce ... perché i ricordi, le immagini e le parole buone restano. Anche quando si cresce.  

DALLA SICILIA CON AMORE: LE ARANCE NAVEL E VANIGLIA DI PAOLO GANDUSCIO




I mesi di febbraio e marzo, si sa, sono tanto colmi di attese per l’anelato arrivo della primavera, quanto carichi di malanni. Un po’ per gli strascichi influenzali dell’inverno e un po’ per i repentini sbalzi di temperatura di un clima che si prende gioco delle stagioni.
E allora perché non sfidare la natura ricorrendo alla natura stessa? Sfruttare i prodotti della terra per mantenersi in salute non è solo possibile ma piacevole. Un rimedio certo viene da un frutto solare come il nostro Paese: le arance, fonti preziose di vitamina C ma anche di quel benessere che sfugge alla chimica ed emana piuttosto dal colore e dal profumo.
Basta tagliare a metà un’arancia di Paolo Ganduscio, appassionato ed esperto produttore di Ribera, in provincia di Agrigento, per intuire tutto il bello e il buono di questi frutti straordinari. In questa zona benedetta dal clima, le piante d'arancio Navel sono dette Brasiliane, poiché pare siano giunte in Sicilia direttamente dal Brasile. L’Azienda della Famiglia Ganduscio, al fine di rendere questo prodotto a norma di legge, ha costruito nel cuore della propria tenuta uno stabilimento idoneo alla lavorazione delle arance, dall’inizio alla fine della filiera. Eppure, quando un prodotto è così buono, c’è sempre qualche segreto oltre alla tecnica, al rigore e all’esperienza. E basta ascoltare le parole di Paolo per rendersi conto che questo segreto è l’amore: “Quella per le arance è una delle vere, grandi passioni della mia vita. Amo i momenti passati in mezzo alle mie piante, a godermi il profumo delle zagare e lo spettacolo dei rami pieni di frutti. La mia è un'azienda di famiglia, dieci ettari di agrumeti e le arance che coltiviamo sono delle due qualità Washington Navel e Vaniglia. La Washington Navel è conosciuta da tutti, ricca di sapori e profumi che la rendono del tutto particolare; ma la vera rarità di cui sono particolarmente orgoglioso e l'altra: l'Arancia Vaniglia.”
E ha ragione d’esserne orgoglioso. Nel nome di questi frutti sono racchiuse le qualità organolettiche ma anche una caratteristica forse meno poetica eppure altrettanto importante: la totale assenza di acidità (oltre che di semi) che li rende tollerabili anche da chi soffre di disturbi della mucosa gastrica.
Oltre la salute, la bontà: da qualche anno Paolo Ganduscio si è messo in gioco anche in un altro campo, quello della cucina, sfruttando l'arancia con fantasia. E ha vinto, visto che ormai propone menù completi, dall'antipasto al dessert, tutti a base di arance. Particolarmente degni di nota (grazie al bassissimo grado di acidità, all'assenza di semi e al retrogusto furttato) sono i piatti a base di pesce e crostacei: pesce spada, gamberi, salmone e scampi ... Non resta che assaggiarli!

martedì 28 gennaio 2014

L'altro sé



Sembra impossibile, tanto che qualcuno storcerà il naso. Ma nella vita non si nasce una volta sola.
La prima nascita, infatti, quella biologica, non è l’unica perché una volta venuto al mondo il corpo, tocca anche all’anima sbocciare e fiorire. E l’anima segue un cammino tutto suo, invisibile, impossibile da prevedere, senza fasi stabilite, pieno di fosse, dossi, abbagli e trabocchetti, un groviglio di cunicoli ambiguamente ombrosi da cui è davvero difficile districarsi e azzeccare, tra i tanti possibili, il filo migliore da seguire. Lei ha un suo tempo, che pur essendo per legge lineare come quello del corpo, ha tuttavia la possibilità di indugiare in su e in giu’, avanti e indietro, oscillando tra passato e presente, tra memorie, sogni, paure e desideri, che la portano a dilatare o restringere la sua esistenza a seconda dei momenti e delle età anagrafiche di cui il corpo è inevitabilmente schiavo.
Chi ha storto il naso dall’inizio, non mi starà più leggendo ormai. Chi invece ha praticità di psiche e inconscio può seguirmi in questa riflessione che vuol essere solo una dichiarazione d’amore alla vita. Sì, perché anche quando l’anima sembra sprofondare, non stare al passo con il corpo, con gli altri, con il mondo, quando pare essersi perduta nel suo stesso melmoso buio, quel pantano torbido da cui è sgorgata, ecco che può trovare sempre una via d’uscita e ricominciare il cammino. Con tanta pazienza e umiltà, facendosi amici i sogni e i fantasmi interiori, quelli che albergano in ognuno di noi più o meno consapevolmente, si può venire a capo, piano piano, di quel filo migliore degli altri da seguire nell’intricato groviglio di sé. Alcuni hanno bisogno di una guida esterna per intuire il chiarore oltre l’abisso, altri invece, con un coraggioso sforzo, possono imparare a interrogarsi e darsi delle risposte, facendosi speleologi della propria anima. E altri ancora, infine, possono vivere tutta un’esistenza senza mai sentire il bisogno di smuovere nuclei d’energia sconosciuti e preferire una vita galleggiando, piuttosto che inabissarsi per volare… e forse fanno bene, chissà. Tuttavia, quando un’anima chiede risposte, bisogna ascoltarla, le deve trovare altrimenti soffre. 
L’importante è credere che in questa ricerca che a tratti appare logorante, dolorosa e infinita, una via d’uscita esiste sempre. Perché l’anima, appunto, può nascere una seconda volta, dopo la prima venuta al mondo insieme al corpo. Purtroppo c’è un prezzo da pagare, perché per rinascere occorre prima morire: è questo il lancinante ma virtuoso scotto che si deve accettare quando ci si avventura alla ricerca di sé. Ma ne vale la pena.
Ed è incredibile rinascere! Si ha veramente la sensazione di ricominciare daccapo, persino il corpo sembra stupirsi della fioritura dell’anima e mette nuove gemme anziché appassire in sintonia con lo scorrere ineluttabile del tempo esterno. Quando succede ciò, una volta rinati, capita di fermarsi a guardare cosa, o chi, si è lasciato alle spalle, e allora sembra di vedere un’altra persona, una pelle vuota e avvizzita partorita da una muta ... un altro sé. Ci si vede da fuori, dall’alto, da lontano, ma così lontano che quasi non ci si riconosce più e con benevolenza si sorride a quello che si era. 
E allora può essere che l’anima dia finalmente la mano al corpo e insieme proseguano il cammino allo stesso passo, con lo stesso ritmo, verso lo stesso traguardo. Fa niente se prima o poi finirà, l’importante è sentire di essere veramente nati. 

lunedì 27 gennaio 2014

To blog or not to blog...



Vorrei esprimere la mia simpatia e solidarietà alle tante e tanti blogger che seguo puntualmente in rete. Mi riferisco a quell’universo di penne nomadi che, volenti o nolenti, disertano le pagine ufficiali di riviste e webzine ma che quotidianamente liberano la propria voce ritagliandosi un proprio spazio virtuale. Uno spazio spesso ristretto e sacrificato, scevro da vincoli ma talvolta anche da gratificazioni.
Penso che, dopo tutto, la spinta a comunicare attraverso un proprio blog non risponda sempre e solo a un bisogno narcisistico, cioè quello di arraffare a tutti i costi visibilità e di mettere in vetrina la propria conoscenza o arte lirica per puro autocompiacimento. C’è chi scrive (e c’è chi scrive bene) anche per dare voce agli altri, facendosi strumento e non attore della comunicazione: per raccontare storie di persone, retroscena di situazioni, panorami emozionali, e non semplicemente fare cronaca di fatti senz’anima. Spesso su riviste e quotidiani non c’è spazio per l’emozione, tanto meno per la riflessione intima e affezionata che esonera dall’obiettività richiesta dalle redazioni.  Personalmente, e probabilmente controcorrente, noto che questo modo di comunicare spontaneo (quando è ben espresso) e svincolato dai frequenti capricci e interessi di direttori non sempre responsabili (!) sia invece ammirevole e dovrebbe essere apprezzato anche da chi fa giornalismo puro. Perché si sa, invece, che i giornalisti professionisti tendono a snobbare i blogger, quasi fossero il sottobosco ombroso rispetto al loro rigoglioso giardino (ora assai in degrado, ahimè!).
Ben vengano dunque queste penne senza patria che, con un po’ di talento e un po’ di sensibilità, aggiungono ogni giorno un tocco di umanità alla comunicazione comandata. 
... e poi, la soddisfazione d'esser liberi di scrivere ciò che si pensa non ha prezzo! 

sabato 25 gennaio 2014

Emozionando



Questa mattina una persona, incontrandomi per strada, senza nemmeno il preavviso d’un ‘ciao’, m'ha detto:
“Tu scrivi cose bellissime, Paola, tu mi emozioni!”
Bhe, non nascondo – e di fatti qui lo dico – il piacere che mi ha dato questo regalo tanto spontaneo quanto generoso. Non è il fatto di scrivere bene, che poi è relativo e discutibile, ad avermi inorgoglito, ma sentire che qualcuno si emoziona leggendomi. In effetti, ogni volta che posso, sulla pagina bianca mi piace liberare le mie sensazioni, lasciando che queste, attraverso le parole, si trasformino in emozioni, e poi in sentimenti, e che ognuno passando e leggendo facesse proprie quelle parole, emozionandosi a sua volta.
Così, in certi momenti come oggi, mi succede di rileggere un mio scritto per guardarmi da fuori attraverso la mente degli altri, in una sorta di gioco narcisistico allo specchio. E mi piace immedesimarmi in questa o quell’altra persona che magari un instante prima s’è soffermata qui a leggere. 
Cos’avrà sentito lui all'inatteso contatto col mio sospiro digitato? si sarà spaventato o si sarà eccitato ... Cosa avrà provato lei mescolando quel mio aggettivo al suo stato d’animo? si sarà commossa o turbata... E allora soppeso, carezzo, mastico i miei pensieri come un bolo di parole che si gonfia e si scioglie, che dalla bocca per contagio si diffonde nel cervello, prima, e nel cuore, poi.
Perché è inutile negarlo, anche quando si scrive per se stessi, per quel tanto decantato bisogno di liberare sensazioni, emozioni e sentimenti, segretamente si scrive sempre anche per chi legge ... che sia una sola persona ben precisa da sedurre o un’immensa platea immaginaria da compiacere. Come la luce che ineluttabilmente vien dal cielo, perché la natura giustamente lo comanda, ma che luce sarebbe senza poi senza riflettersi e moltiplicarsi nelle infinite sfumature che la terra, accogliendola, le ridona!
Alla persona che questa mattina mi ha fatto questo bel regalo, voglio dire semplicemente:
“Grazie, anche tu oggi, con le tue parole, mi hai emozionato!”     

venerdì 24 gennaio 2014

IL CIBO CHE NUTRE LA MENTE



Come ogni mese di gennaio, da tre anni a questa parte, Milano si anima di un evento unico nel suo genere e per questo sempre molto atteso. E’ Olio Officina Food Festival, ideato e diretto dallo scrittore, giornalista e oleologo Luigi Caricato, che anche quest’anno ha scelto il Palazzo delle Stelline di Corso Magenta come sede della manifestazione.
Si tratta dell’unica tre giorni (dal 23 al 25 gennaio) completamente dedicata al prodotto principe del nostro Paese, simbolo di cultura, di storia, di salute e di piacere: l’Olio. Quest’edizione accoglie anche un approfondimento sulle olive da tavola e su un altro condimento per la mente, l’aceto balsamico. L’evento non è dunque essenzialmente un’esposizione di etichette, né un’esibizione di piatti creativi, di chef stellati o di guru dell’alimentazione. E’ piuttosto uno spazio aperto d’incontro e confronto che invita i protagonisti a raccontare l’Olio attraverso l’espressione delle proprie esperienze professionali, toccando tutte le declinazioni dell’Olio: dal suo nascere al suo consumo, dalla distribuzione alla vendita, ma anche dal suo passato al suo futuro. Il suo presente è ben rappresentato qui, dove ognuna delle sale del Palazzo delle Stelline accoglie un’esperienza legata all’Olio: dall’Area cooking a quella per i bambini, dall’Area olistica a quella di degustazione, con un corredo di opere d’arte davvero originali, anch’esse dedicate al mondo dell’Olio, dalla pianta ai frutti.
Quest’anno il Festival si è aperto con una riflessione sull’anima sociale dell’Olio e del cibo e non a caso a battezzare l’evento è stato padre Enzo Bianchi, priore della Comunità di Bose, oltre che appassionato produttore d’Olio. Quest’avvio ha dato ancor più pregnanza al coro di voci di esperti (docenti, medici, saggisti, agricoltori, agronomi, chef …) che si sono concertati nel ribadire un concetto fondamentale: l’Olio è un alimento prezioso per il corpo e per la mente che va conosciuto, tutelato e diffuso senza tradirne l’anima mascherandola con messaggi confusi e contradditori, bensì rendendolo trasparente con una comunicazione schietta per un consumo più consapevole.
Non tutti per esempio sanno che l’Olio contiene elementi virtuosi nella prevenzione di alcune tra le malattie più deleterie della nostra società, tra cui l’ischemia e la depressione. Sì proprio la depressione, male oscuro dei nostri tempi, trova provate ragioni di prevenzione dalla chimica dell’Olio, come il Prof. Massimo Cocchi (Libera Università degli Studi di Scienze Umane e Tecnologiche di Lugano) ha sapientemente dimostrato durante la mattina di venerdì. Un’illuminante lezione di medicina che s’è intrecciata a quelle di storia di Aimo Moroni – Chef de Il Luogo di Aimo e Nadia – e Nicola Dal Falco - scrittore – i quali hanno letteralmente rapito il pubblico con echi di memorie legate a ricette e fragranze ancora vive. Attraverso le loro parole s’è sentito tutto il valore, oggi spesso dimenticato, dei sapori di una volta, quando il forno veniva coccolato, curato, alimentato come un figlio e non, come oggi, acceso a distanza con un click dal cellulare. Quando la semplicità era il primo valore della cucina e la qualità della materia prima faceva davvero grande la cucina. Quando la povertà arricchiva la fantasia. E quando, paradossalmente, si aveva molta più a cuore la salute, perché qualità della materia prima significa non solo bontà ma anche benessere.
Questa è stata una lezione di vita, oltre che di esperienza legata al mondo dell’alimentazione, perché, con il tocco che solo i poeti e gli scrittori hanno, s’è avvertito ciò che la nostra società ha perduto, o rischia di perdere del tutto. Recuperare il passato, anche quello della cucina, è l’unico modo per guadagnarsi un futuro certo e sano, e non solo in cucina. Per questo occorre avere un atteggiamento colto verso ciò che si mangia, dove colto non significa erudito, bensì amichevole: conoscere e trattare con amore ciò che si cucina per apprezzare tutti i valori di ciò che si offre e si mangia. E alla domanda posta ad Aimo Moroni, come riconoscere un vero grande chef, la risposta è stata “vediamo dove va a fare la spesa!” E, possiamo con certezza aggiungere, vediamo che Olio compra, se conosce l’Olio, o meglio gli Oli, quali e perché s’abbinano con un’insalata o con un pesce, con una tartare o una zuppa.
Perdersi nelle immagini di un passato non poi così lontano, tra profumi di lessi, brodi di gallina, minestre di legumi e spaghetti ai cipollotti conditi con un filo d’Olio fa quasi dimenticare d’essere a un evento culturale e mediatico proiettato nel futuro del commercio e del marketing e risucchia, piuttosto, in atmosfere dense di emozioni, come dentro le pagine di un romanzo. Un romanzo scritto dalla nostra società, attraverso l’amore per il cibo.
Olio Officina Food Festival è anche questo: contribuisce a fare sì che le pagine di questo romanzo si arricchiscano di valori autentici e nuovi, perché l’innovazione è possibile e determinante anche in un settore che non può, né deve, tradire le tradizioni.
Infatti, oggi esattamente come secoli fa, una fetta di pane e Olio è non solo qualche cosa di buono e sano ma, per la sua stessa disarmante semplicità, è anche un simbolo di sentimenti, di affetti e di famigliarità. Se a questo piacere per il corpo e per il cuore si unisce la conoscenza di ciò che si mette in bocca, imparando a ‘capire’ l’Olio, allora anche la mente raggiungerà il suo piacere più pieno, quello della consapevolezza. 

La complicità tradita



Succede nella vita di tradire o essere traditi in amore. Ma poi passa, passa sempre, e si perdona.  
Tuttavia, ciò che considero il tradimento più triste e inguaribile è quello dell'amicizia perché coinvolge essenzialmente l'anima, deludendo quei sentimenti genuini di tenerezza, fiducia e complicità,  sostituendoli con le pulsioni più graffianti, la malevolenza, il dispetto, il "contro", l'ostentazione dell'alleanza con chi si sa essere ostile... insomma  che fa male ciecamente e spesso ostentatamente. E' proprio la complicità tradita a sanguinare, la fratellanza spezzata, quell'urgenza antica di sentirsi per confidarsi che viene improvvisamente interrotta, abortita, mutilata.
Quando succede si rimane sbigottiti, inermi, con un'amarezza silente nel cuore che ci stordisce e ci lascia dentro solo un fil di voce, un interrogativo cui non sapremo mai rispondere: "Perché'?".

giovedì 23 gennaio 2014

Antitesi esistenziale



Corpo e anima non sono quasi mai allineati.
Troppo spesso la carne brama ciò che lo spirito fugge, come se una capricciosa forza magnetica tramasse a separare due astri destinati per natura ad essere calamitati l’un l’altro.
Ma perché si è ineluttabilmente lacerati da quest’antitesi esistenziale?
Dove l’errore, quale la colpa?
Perché capitano momenti in cui pare d'esser condannati a rincorrere ciò che ardentemente si desidera e altrettanto ferocemente si è frenati dalle briglie invisibili che la coscienza, subdola e vendicativa come una matrigna tradita, puntualmente allaccia alle nostre spalle?
Eppure, qualche volta a qualcuno sarà capitato di sentire che la magica sovrapposizione di tempi e d'intenti avviene, e gioiosamente si compie quel dolce posarsi della carne sullo spirito, quel reciproco accogliersi per celebrare il sospirato sposalizio cosmico.
E’ come se, superato un ideale punto di non ritorno, l’ombra finisse col ricongiungersi all’oggetto materiale da cui proviene e riprendesse con esso vita, unendosi, incollandosi, compenetrandosi nelle sue tre polpose dimensioni, trasformando la piattezza in pienezza e il buio in colore.
Corpo e anima non sono quasi mai allineati, ma quando quest’antitesi esistenziale si placa e la coscienza dà tregua allora si può dire d’aver fatto pace, almeno una volta nella vita, con se stessi, abbandonandosi con gaiezza ai propri desideri e dimenticando le proprie, spesso inutili, paure.
Senza errori e senza colpe!

Ossimorosa


Sono un ossimoro.
vorrei non desiderare
ciò che desidero!

mercoledì 22 gennaio 2014

IN CUCINA COL DOTTOR FREUD


Dal letto alla tavola!



Nonostante mi senta profondamente filo junghiana, devo ammettere che leggere Freud mi procura immancabilmente un piacere superiore rispetto alle immersioni nei tormentati saggi di Jung. 
Guizzi d’ironia, scioltezza di stile e pennellate erotiche ogni dove rendono i suoi scritti stuzzicanti e divertenti, oltre che istruttivi e riflessivi. Non ne parlo come di un maestro di pseudoscienza, ora, ma semplicemente come scrittore, perché Freud è indiscutibilmente uno che sa scrivere!
Esiste un suo libro, tra i tanti, che particolarmente m’intriga e paradossalmente resta tra i più sconosciuti, forse perché tratta di un tema apparentemente frivolo, non tanto da … lettino, bensì da tavola!
S’intitola “La cucina del Dottor Freud” scritto con pungente fantasia alla fine della lunga carriera del padre della psicoanalisi e pubblicato grazie all’interessamento di James Hillman. Freud definisce questo libro come un complemento alla sua autobiografia, “un saggio sulla reminiscenza, un po’ come le ultime opere di Jung: esso costituisce il mio personale Ricordi, creme, confetture …” (sagace la frecciatina al suo pupillo, che aveva scritto “Ricordi, sogni, riflessioni”).
Tuttavia, trovo che in queste pagine, oltre a gustose ricette appuntate a mano durante le sedute, coloriti aneddoti personali e digressioni intime legate a colleghi e pazienti, s’incontrino anche piccole, saporite verità psicologiche, pure anticipazioni scientifiche legate al piacere dei sensi a tavola. Infatti: “Questo libro è anche un contributo al principio del piacere nella vita quotidiana. Alla mia età, chi vuole ancora sentir parlare di seccature? Di problemi ne ho avuti fin troppi. Pensare invece a un buon piatto, al menù di domani, alla possibilità di appagare ancora un desiderio, questa è la fonte e la soddisfazione di una lunga vita ben vissuta.”
In queste pagine, infatti, si sente tutta la soddisfazione di un uomo giunto in vecchiezza che - avendo rinunciato, per naturale decorso dell’energia virile, alle gioie del sesso – non ha tuttavia rinunciato alla ricerca del piacere, riscoprendolo, appunto, nel cibo. Freud gode mangiando e gode cucinando! Così, alla fine dei suoi anni, rivaluta ed eleva al re dei piaceri l’erotismo orale che da fase psicosessuale primaria finisce con l’essere anche l’ultima nell’esistenza di una persona … come l’ultima cena, insomma! “Poiché la base dell’istinto sessuale è orale, esso adora mangiare. Il bambino viene prima dell’uomo, la lingua prima del pene, la bocca prima della vulva, filogeneticamente e ontogeneticamente. … All’inizio era la bocca. L’anatomia è destino.”
Trovo assolutamente veritiero questo spostamento del piacere da un oggetto (sesso) all’altro (cibo), pur restando radicato all’oralità. La vedo come una sublimazione socialmente accettata d’istinti altrimenti non esprimibili né condivisibili da animali umani adulti. Ormai anche le neuroscienze confermano il fenomeno – che da psicologico diventa neurologico - sostituendo alle spiegazioni goliardiche di Freud le tanto inequivocabili quanto fredde scansioni cerebrali. In pratica, sciogliere lentamente in bocca un cioccolatino fondente stimolerebbe, più o meno, le stesse aree cerebrali attivate da ben altri scioglimenti … E in alcune situazioni, anziché compensarsi, le due dimensioni potrebbero sovrapporsi in una compromettente orgia di sinapsi.
Meglio non pensarci per non ceder a facili scusanti, specialmente quando si assapora una libidinosa mise en bouche durante una degustazione professionale o una cena di lavoro, perché dalla tovaglia alle lenzuola il passo rischia d’essere assai breve. 
Tutta colpa del principio del piacere, come insegna il grande Chef Sigmund Freud … 

domenica 19 gennaio 2014

ALLA RICERCA DEL SAPORE PERDUTO




Nel mio frequente bazzicare tra ricette, locali e fornelli in cui regnano i sapori più eccellenti e stravaganti, m’imbatto sempre più spesso nella condivisa rivalutazione della cucina casalinga, profondamente apprezzata sia da chi la propone sia da chi la consuma.
Noto, cioè, che di fronte allo stupore della multiforme filosofia gastronomica creativa, in cui gli chef in toque blanche appaiono come magnifici maghi di Oz a caccia di stelle, vince la disarmante e nostalgica semplicità della tradizione culinaria. E forse dietro le spiegazioni più diffuse e superficiali che giustificano questa tendenza – quelle cioè che s’appellano alla salute, al benessere, alla conoscenza del territorio e alla spesso millantata promozione di prodotti a ‘km 0’ capaci di trasformare il nudo desco in un rigoglioso orto – s’annidi una spiegazione molto più profonda, personale, intima direi.
E’ solo una mia ipotesi che, tuttavia, interrogandomi mentre scrivo di questi argomenti, trovo tanto plausibile quanto piacevole.
Non potrebbe essere, cioè, che questa rinata attrazione per i sapori, le fragranze e le ricette casalinghe, quelle ‘della nonna’, risponda a un’esigenza di tornare alle proprie radici interiori, ai propri archetipi … di tornare, insomma, davvero a casa. Metaforicamente, ovviamente: quella sensazione di 'casa' che alberga dentro ognuno di noi. Un’attrazione che risponda, cioè, al desiderio di riscoprire quelle atmosfere emotive che ci sono appartenute da piccoli, atmosfere di fiducia, condivisione, non necessariamente sempre spensierate, beninteso, ma comunque vissute e poi perdute, perciò inevitabilmente vive anche nelle loro ombre.  Echi di atmosfere emotive che, attraverso il cibo, riemergono con ancor più piacevole esuberanza perché si sa che i sensi solleticano anche l’anima, oltre al corpo. Il cibo risveglia, infatti, memorie consapevoli ma anche sentimenti soffusi, magari impercettibilmente dissolti nel tempo eppure sempre lì, a bussare alla nostra consapevolezza.
E allora mi chiedo se questa cosiddetta cucina casalinga, famigliare, tradizionale che tanti, tantissimi grandi chef e ristoratori sempre più spesso tornano a proporre con successo, ebbene non affondi il suo perché in un meccanismo psicologico, prima ancora che commerciale, economico e d’immagine. Funzioni, insomma, un po’ come la madeleine di Proust.
Sarebbe bello fosse così. 
L'eccentricità di una cena creativa somiglierebbe, allora, a una focosa scappatella di cui approfittare ogni tanto per gioco ... eccitante, sì, ma poi, se ripetuta a oltranza, ecco che probabilmente perderebbe sapore e si spegnerebbe del colore della trasgressione. Mentre il piacere del sapore di casa, quello non muore mai e anche se a tratti può scolorire poi ritorna puntuale a ricordarci chi siamo, come un boomerang al cuore. 
Se così fosse, questa consapevolezza aiuterebbe forse un po’ tutti a guardarsi dentro, anche a tavola, sì! Guardarsi dentro e indietro, riconciliandosi con se stessi, con i propri genitori, con i propri amori e con gli inevitabili dissapori di cui il vissuto di ognuno è spesso seminato. 
E magari, con un po’ d’ironia, c'inviterebbe a fare un bel brindisi alla bellezza di ritrovarsi, con la certezza di saper trasformare il tempo in sapore e il ricordo in piacere! 

giovedì 16 gennaio 2014

“PRODURRE VINO E’ COME DIPINGERE”


A ogni intenditore il suo quadro d’autore: i segreti del successo del Barone La Lumia, artista inimitabile del panorama enologico siciliano



Nella piana di Licata, in provincia di Agrigento, là dove l’ultimo lembo di terra italiana si tuffa nel mare africano, si estende la Tenuta dei Baroni La Lumia, un simbolo della cultura oltre che dell’agricoltura di quest’isola. Con una superficie complessiva di 150 ettari di generosa terra,
 40 sono coltivati a vigneto approfittando degli strati gessosi-solfiferi e di un microclima eccezionale per luminosità, prossimità al mare ed escursione termica.
L’azienda da sempre vinifica esclusivamente uve proprie, frutto di vitigni autoctoni selezionati tra i migliori di Sicilia: Nero d’Avola, Inzolia, Nerello Mascalese e Frappato, dai quali ottiene vini inconfondibili per intensità di aromi e di gusto.
Inconfondibile è anche la Tenuta stessa, risultato armonioso di linee e dettagli architettonici che evocano epoche e paesi lontani. Il casale arabeggiante è stato edificato alla fine del ‘700 dalla stessa famiglia La Lumia e rispecchia la personalità audace e fiera dei vini che qui nascono.
Nicolò, l’attuale proprietario, ha alimentato con passione e competenza l’antica tradizione enologica di casa, resuscitando quei vini che in un glorioso passato avevano donato ricchezza ai coloni Rodio-Cretesi e opulenza alla città di Agrigento.


Fare un buon vino non è mai facile. Il successo non viene solo dalla tecnica ma da una segreta alleanza tra la natura e l’uomo, quindi tra la bontà della materia prima e il rispetto con cui la si tratta. Qui la raccolta delle uve avviene manualmente e ogni fase della lavorazione dei grappoli è minuziosamente curata fino all’arrivo in barrique, sotto gli sguardi scrupolosi del barone Nicolò e del figlio enologo Salvatore. La filosofia dell’azienda in merito a questi vini ‘particolari’ si basa sull’eleganza del gusto che deriva da un riuscito matrimonio tra le doghe di allier e la struttura del vino.
Il barone Nicolò, con la saggezza di un padre lungimirante, ricorda spesso al figlio Salvatore che: “produrre vino è come dipingere! Bisogna avere la giusta tavolozza dei colori. Il dosaggio della barrique deve essere come il colpo di pennello sulla tela, morbido e delicato.”
La Tenuta Barone La Lumia, oltre alla produzione di vini ottenuti con tecniche tradizionali, ha sfidato il tempo puntando sull’originalità. Ha recuperato alcuni dei sistemi di vinificazione utilizzati dai coloni Rodio-Cretesi nel quinto secolo a.C.
e da questa scommessa è nata la linea dei Grecischi: Nikao, Halykàs e Limpiados,
 tre vini straordinariamente virili per struttura e aromi persistenti, che sprigionano, oltre ai caratteri del territorio, cinquemila anni di gloriosa storia.
 In altre parole, questi vini possiedono il tocco di pennello che fa la differenza in un quadro d’autore.
Salvatore La Lumia, in un’intervista, ha confidato che il segreto della lunghezza al palato dei suoi vini è costituito dalla massima estrazione delle sostanze aromatiche e dal rispetto del tempo, grande alleato del grande vino, nonché da appassimenti su pianta, ossidazioni naturali e lunghissime permanenze sulle bucce. Naturalmente, per far vini così speciali qualche altro segreto ci sarà ma, in quanto tale, resterà per sempre custodito nella piacevolezza di un sorso di Cadetto, Don Totò o Nikao ... a ogni intenditore il suo quadro d’autore!

mercoledì 15 gennaio 2014

L'improbabile




Ero come un fiammifero
che non chiedeva altro ch’essere acceso.
Tu mi hai acceso.
Solo per bruciarmi del mio stesso fuoco.

(farfugliante scritta in matita di un’adolescente inquieta, ritrovata sull’ultima pagina di un libro del 1980, intitolato “L’improbabile”, di Yves Bonneffoy. E mi domando se, nonostante il tempo, quell’adolescente sia cambiata)

SOTTO UN MARE DI STELLE



Da Casa Mirabile, con amore

E’ una notte incantevole.
Una di quelle che capitano solo da bambini, nei sogni o nelle favole. Una di quelle notti che non si dimenticano più.
Rimasta finalmente sola, mi beo distesa sotto un mare di stelle che pare cancellare ogni dubbio sull’esistenza di un Creatore che l’abbia voluto lì per custodire desideri segreti e mortali speranze. Tutt’attorno silenzio. Solo alberi di ulivi, viti, fichi d’india e agrumi e nascosti nell’oscurità conigli e lepri, rifugiati nel sonno prima che le prime luci dell’alba li riportino a saltellare nel verde. Non che io li veda ora, ovviamente, ma ripenso alla mattina di questo stesso giorno quando, affacciata alla finestra della mia camera per godere del primo sole, avevo visto nell’erba spuntare le buffe orecchie di quelle creature in libertà che giocavano a rincorrersi attorno alla piscina, beatamente ignari della presenza umana.
Mi trovo a Menfi, un paese delizioso in provincia di Agrigento, nella Sicilia meridionale, sopravvissuto finora all’orda barbarica del turismo costiero e ancora fortemente legato alla tradizione agricola dei suoi abitanti. In grembo a un colle, esattamente dove mi trovo io, sorge Casa Mirabile, un antico Baglio immerso in un generoso uliveto e ricche distese di viti, ulivi e agrumi. Edificato nel 1800, destinato in origine alla lavorazione del vino, oggi Casa Mirabile è un Relais finemente ristrutturato grazie alla passione di Fabiola e Lillo Barbera che, con paziente ricerca e raro buon gusto, hanno riportato questo luogo allo splendore di un tempo. 
Mentre inseguo con lo sguardo rapito due stelle cadenti, ripenso a quel che mi ha raccontato la mattina il padrone di Casa, Lillo, e mi sento improvvisamente risucchiare fuori dal tempo. Casa Mirabile, infatti, era un’Antica Riserva del XVII secolo, proprietà di un ricco nobiluomo agrigentino che la volle regalare alla sua adorata in segno d’amore. Scelse proprio quella casa in collina affinché ella ogni mattina potesse svegliarsi guardando il mare, che tanto amava, rimanendo tuttavia protetta dalla calura sicula, talora impietosa, che avrebbe mal sopportato provenendo del freddo Nord Europa. La nobildonna scelse gli arredi portando con sé il tocco della sua terra d’origine e si dedicò con passione al giardino circostante, finché il nobiluomo rimasto vedovo poté finalmente ritirarsi a vivere con lei e gioire insieme di quell’incantevole panorama per il resto dei loro anni.
Dal fascino del passato, alla seduzione del presente. Oggi Casa Mirabile è più bella che mai. Il restauro è frutto di uno studio accurato per mantenere i colori originali e anche la scelta dei complementi d’arredo ha rispettato le radici storiche, senza naturalmente trascurare tutti i dettagli che possano viziare gli ospiti durante la loro permanenza qui. Qui, dove la natura è ancora incontaminata e la mano dell’uomo è intervenuta su di essa con rispetto e gratitudine, per valorizzarla senza tradirla: la spiaggia bianca protetta dalle canne di bambù, i tramonti rosso fuoco, il profumo di ginestre e rosmarino, gli olivi secolari e i vigneti opulenti che raggiungono morbidi il mare per abbeverarsi di fresca salsedine.
E’ una posizione privilegiata quella di Casa Mirabile che concilia la quiete e la gaiezza del paesaggio con le bellezze storiche e artistiche dei dintorni. Dalla Valle dei Templi di Agrigento alla splendida Sciacca, dal parco archeologico di Selinunte alle ristoratrici acque calde di Montevago: un incanto senza paragoni, per gli occhi e lo spirito. Ma siccome anche il corpo pretende la sua parte, ecco sopraggiungere altri piaceri. La cucina di Casa Mirabile è una tentazione senza peccato, fatta con semplicità e genuinità, perché qui tutto viene direttamente dal mare e dalla terra tutt’attorno, senza intromissioni artificiali. Dalla prima colazione alla cena, Lillo coccola gli ospiti con proposte fuori del comune per la schiettezza dei sapori, soprattutto per chi viene dal nord, come me. Pane cunzato, per cominciare, con quell’olio e quell’origano e quei pomodorini che solo qui sprigionano tutto il profumo e il sapore del sole. Ed è solo l’inizio, in un crescendo di piacevoli attentati alla gola, cui è impossibile non cedere.
A Casa Mirabile ci si sente davvero a casa. Solo 11 camere, tutte arredate con sobria semplicità e buon gusto, mantengono un’atmosfera intima e informale allo stesso tempo, raccontando la sicilianità più autentica, quella raccontata in tante pagine di romanzi scolpiti nel tempo.
E così, mentre saluto l’ultima stella cadente in questa notte indimenticabile, sorrido al cielo ed esprimo un desiderio: quello di ritornare qui, sotto questo mare di stelle, almeno un’altra volta in vita mia.

martedì 14 gennaio 2014

Il difetto


Lui:"Devo ammetterlo, un difetto ce l'ho: 
io non so stare solo con me stesso!"
Io:"Ti capisco, 
fossi in te non ci riuscirei neanch'io!"
Non ho capito perchè se l'è presa con me, visto che vuole essere sempre compiaciuto ...


lunedì 13 gennaio 2014

UNA GRANDE FAMIGLIA, UN GRANDE OLIO, UN SOLO NOME: TITONE



Salute e bontà sono i segreti vincenti del Trapanese eletto migliore al mondo dal Premio Biol 2013



Immaginate un soffice pianoro rigoglioso di verde conteso tra il cielo e il mare. Di fronte, come perle emerse dai flutti, una manciata di isole dal fascino misterioso, sorvegliate dalla costa da candide distese di sale leccate dal sole.
E’ quello straordinario lembo di terra che si snoda tra Trapani e Marsala, nella Sicilia occidentale, con Erice alle spalle e Mothia e le Egadi in fronte. Ed è in questo contesto paesaggistico da fiaba che la Famiglia Titone, dal 1936, coltiva con amore la propria passione: quella per l’olio. Non un olio qualsiasi ma un olio che sprigiona bontà e salute, frutto di un dialogo fluido tra uomo e natura che si concreta in 5800 alberi coltivati nel pieno rispetto dell’ambiente.
La Famiglia
La Famiglia Titone ha sempre avuto particolarmente a cuore la salute: da papà Nicola alla figlia Antonella, prima dell’agricoltura è stata la farmacia la professione di famiglia.
Nasce così, da una filosofia tramandata da generazioni, un olio di qualità, sano e naturale. L’azienda è stata una delle prime in Sicilia a convertirsi all’agricoltura biologica e dal 1992 tutte le fasi di lavorazione sono controllate, tracciate e certificate. Oggi l’azienda Titone vanta due tipi di olio – ottenuti da olive delle cultivar Cerasuola, Nocellara del Belice, Biancolilla – raccolte a mano e molite dopo poche ore nel frantoio aziendale. Con passione e determinazione, la famiglia Titone è riuscita a creare un olio che incorpora i profumi millenari di questa zona di Sicilia, unica per microclima, ottenendo apprezzamenti e riconoscimenti in tutto il mondo.
L’Olio
L’olio Titone Dop Valli Trapanesi (varietà Cerasuola, Biancolilla, Nocellara del Belice) seduce con un raffinato bouquet di erbe officinali, mandorla fresca e sentori di banana verde. L’ingresso in bocca rivela un corpo ben strutturato e piacevolmente dolce anche all’olfatto, con immediato sostegno della nota amara che va a posarsi su un tono piccante e di lunga intensità. Eccellente per esaltare marinare di tonno, minestre di funghi, zuppe di legumi, pesce al forno e tartare di manzo.
L’olio Titone Biologico (varietà Cerasuola, Biancolilla, Nocellara del Belice) si offre al naso con fini profumi di mandorla verde e spiccate note erbacee che rimandano al paesaggio siciliano; il corpo ben strutturato sprigiona un inizio dolce raggiunto presto da un impatto amaro che, combinato con un guizzo piccante intenso, innamora il palato. Perfetto con verdure crude e cotte, insalate, zuppe, arrosti e carni rosse.
La Famiglia Titone e i suoi oli continuano a collezionare un’infinità di prestigiosi premi, tra cui quello guadagnato dall’Extravergine Titone Dop Valli Trapanesi che è stato unanimemente ritenuto il “miglior olio biologico del mondo”, meritando il 18° Premio Biol 2013.

domenica 12 gennaio 2014

L’EMOZIONE ARANCIONE CHE VIEN DALLA SICILIA




Dove il sole bacia il mare e la salute sposa la bellezza cresce una carota tutta speciale: la carota novella di Ispica Igp 

Olio, vino, arance, pesce … mare, sole, passione e generosità.
Per queste e molte altre virtù naturali e umane la bella Sicilia da sempre si fa amare da tutti, in Italia e nel mondo. C’è tuttavia un prodotto di cui poco si parla, sottovalutato forse per la sua umile e pur preziosa natura, un prodotto che invece accende di insospettato colore l’appetitoso panorama gastronomico siciliano.
E’ la carota. In particolare la carota novella di Ispica Igp, frutto di quel territorio denso di storia e di natura che si srotola tra le province di Ragusa, Siracusa, Catania e Caltanissetta, nell’estrema punta sud-orientale dell’isola. E’ qui che, benedetta dal sole e carezzata dalle brezze marine, la carota novella ha messo letteralmente le proprie radici, stimolando una propria economia e un sistema produttivo unico nato da una lunghissima tradizione popolare. 
Le sue origini risalgono agli anni Cinquanta e da allora il suo colore solare s’è aggiunto a quelli delle altre bellezze della zona: quelle naturali di Capo Passero, Pozzallo e Porto Palo, e quelle culturali di Noto, Modica e Scicli. E’ qui, dunque, che il gusto della semplicità sposa quello del barocco, alimentando quella straordinaria convivenza tra genuinità del territorio e sontuosità architettonica che solo la Sicilia vanta.
La sua terra natia
E allora, prima di sederci a tavola per assaggiare la dolcezza della carota novella di Ispica, facciamo una passeggiata attraverso i luoghi delle sue origini. L’antica Hispicaefundus, che oggi conta circa 15 mila abitanti, domina il mare dall’alto di una collina dolcemente degradante verso l’azzurro delle onde. Il mare è a pochissimi chilometri, pare di toccarlo da quassù, e i ruderi della fortezza, nucleo originale dell’antica città, sembrano aver stipulato un sodalizio eterno con il blu degli abissi, aggiungendo il fascino della storia alla bellezza della natura. Dieci chilometri di spiagge, in gran parte libere, insieme all’area archeologica della Cava di Ispica sono già un argomento convincente di seduzione. Quando poi, appagati gli occhi, ci siede a tavola per appagare anche il palato e si assaggia la carota novella di Ispica nelle sue declinazioni, ecco che l’innamoramento per questi luoghi è assolutamente definitivo.
Perché la carota novella di Ispica è speciale?
Un ortaggio apparentemente umile nasconde, in realtà, virtù nobili dovute in parte alla generosità del microclima e in parte alla sapiente laboriosità degli agricoltori siciliani. Qui le temperature medie invernali sono particolarmente elevate, così come il numero di ore di luce solare, e i terreni di medio impasto parzialmente sabbiosi forniscono alla carota novella preziosi elementi nutritivi con buone caratteristiche di profondità e freschezza. Anche il colore brillante è opera della natura e rivela una metabolizzazione ottimale tra zuccheri, vitamine e minerali. Salubrità e tracciabilità del prodotto sono garantite anche da un disciplinare che prevede una rotazione colturale triennale che eviti la stanchezza dei terreni.
La precocità della maturazione contraddistingue la carota novella di Ispica, donandole una ricchezza di carotene e glucosio unica. Al consumatore, giunge solo dopo aver ultimato il ciclo di maturazione in campo aperto, circa alla fine di febbraio, da qui il segreto del suo successo espresso in quel “novella” che accompagna il nome, sinonimo di croccantezza, aroma erbaceo e colore del sole.
Un Consorzio tutto per ‘lei’
Il Consorzio di Tutela Igp, nato nel 2010 ,riunisce 12 produttori (il 50% di quelli di tutta la zona) e insieme alla volontà di ampliare i propri orizzonti di produzione mira a promuovere un consumo consapevole, grazie alla distribuzione della carota novella in tutta Italia e all’estero. “Noi raccogliamo quando gli altri seminano” - afferma Carmelo Calabrese, Presidente del Consorzio -  “il nostro punto di forza è il ciclo produttivo: seminiamo in autunno per raccogliere in primavera.” Ecco perché la carota novella di Ispica non è solo argomento di salute e bontà ma anche di guadagno e competitività. Partecipa, infatti, a FruitLogistica a Berlino, la fiera internazionale più importante dedicata ai prodotti ortofrutticoli.
Mangiatela cruda!
Umile ma saporita, semplice ma ricca. La carota novella di Ispica, miniera di minerali (ferro, calcio, magnesio, rame, zinco) e vitamine (B, PP, D, E, C), esprime il meglio di sé se consumata cruda, in purezza oppure declinata in succhi, centrifughe o estratti. La crudità lascia intatte le sue virtù: dolcezza, profumo e croccantezza si sublimano al palato sprigionando nell’esperienza gustativa tutta la generosità della Sicilia.
Oltre al piacere, la salute. L’elevato contenuto di vitamine e minerali aumenta le difese dell’organismo, la capacità di sfidare malattie infettive, le affezioni polmonarie e gastro-duodenali e le dermatosi. Per la gioia delle signore (ma non solo), la carota novella di Ispica previene l’invecchiamento grazie all’azione antiossidante contro i radicali liberi. Inoltre, è compatibile con l’alimentazione dei diabetici per via del basso carico glicemico e perché l’alto livello di carotenoidi nel sangue esplicherebbe un effetto protettivo verso il metabolismo glucidico, regolando anche i livelli di colesterolo. Infine, l’alto contenuto di falcarinolo rende la carota un’arma antitumorale, con un’accortezza: questo composto anti-cancro si conserva al meglio se le carote eventualmente cotte vengono lasciate intere e non tagliate a pezzi.
Per chi invece non ha problemi di salute e si sente libero d’essere goloso, la carota novella di Ispica si propone in infinite declinazioni gustose: dalla confettura al cioccolato, dai biscotti alla crema liquorosa. Anche se il massimo del piacere, quello che mette tutti d’accordo, viene sempre dalla semplicità: una croccante carota novella di Ispica appena colta tuffata in un profumato olio extravergine di Sicilia. 
Ed è la quintessenza della felicità.