martedì 27 novembre 2012

James Hillman, verso il sapere dell'anima



“L’anima è vulnerabile e soffre; è passiva e ricorda. L’anima è immaginazione e un cavernoso deposito di tesori, confusione e ricchezza insieme. Però la vita, il destino, la morte non possono diventare consci; così con l’anima viene costellata una consapevolezza del nostro fondamentale essere inconsci.”
Sono solo alcune delle riflessioni di James Hillman concertate nel libro di Moretti & Vitali, a cura di Francesco Donfrancesco, dal titolo “James Hillman, verso il sapere dell’anima”. I saggi contenuti in questo volume rendono omaggio all’opera di uno dei più pregnanti pensatori del nostro tempo. Le voci degli autori convergono come una luce riflessa attraverso un prisma interpretativo che ricompone le infinite sfumature di questo psicologo americano innamorato della cultura europea e italiana. Anche grazie anche alle molte fotografie che ritraggono l’analista nella sua quotidianità, sfogliare le pagine di questo libro è un po’ come seguire i passi dell’Hillman uomo, semplice e sorridente, per le strade di Bologna, Firenze, Porto Ercole e Vignanello. Ne emerge un personaggio che tutti avremmo voluto conoscere per l’istintiva simpatia che suscita. Ma anche per la sua straordinaria levatura intellettuale, coinvolgente e contagiosa: pragmatico e filosofico, eretico e rivoluzionario, il più fedele erede di Jung è anche il suo più audace traditore poiché si sa che ogni allievo all’altezza del maestro riesce sempre a sorprenderlo. Tuttavia Hillman si sgancia dal pensiero junghiano abbracciandolo e non disdegnandolo. Decolla verso orizzonti audaci e ambiziosi, recuperando le preziose gemme di quella tradizione filosofica che sboccia in Plotino, Eraclito e Vico per atterrare in un presente in cui l’anima sembra essere sempre più mortificata dalla cultura della fretta e del materialismo.
Riconducendo il pensiero junghiano all’umanesimo italiano, Hillman rivaluta il sodalizio tra bellezza e giustizia, poiché la bellezza agisce come una voce che chiama a cose migliori, che spinge il cuore ad amare, la mente a immaginare. Eppure, la moralità senza bellezza immiserisce il cuore e la mente. Hillman punta il dito contro la perdita della facoltà originaria dell’uomo, la facoltà poetica e immaginativa, e coglie la causa dell’imbarbarimento della società moderna proprio nella diffusa incapacità di entrare in contatto con l’anima mundi sottesa a ogni essere vivente.
Fare anima è il concetto folgorante, davvero rivoluzionario, di Hillman: significa rovesciare il verso del proprio processo di crescita, pensare che anziché ascendere si debba discendere per conoscere le risposte ai propri interrogativi. Il cammino della comprensione è un progressivo oscuramento, un bagno nell’incertezza, volto alla ricerca di una verità obliqua e trasparente, mai rettilinea e cristallina. E’ un invito a riscoprirsi bambini per tornare a vedere gli angeli, quegli angeli che non sono fantasmi o miraggi ma le eloquenti manifeste sfaccettature di quell’anima mundi che dobbiamo assolutamente recuperare per non inaridire del tutto. Da qui l’esigenza di incoraggiare una psicologia politeista - perché l’anima è per sua natura politeista – per favorire la differenziazione e l’elaborazione di sè, non più l’individualizzazione di un illusorio unico Sè.
James Hillman, con profonda levità e pensosa ironia, ha teso un ponte intellettuale non solo teoretico ma soprattutto pratico tra passato e futuro, tessendo gli scenari culturali necessari per una psicologia più adatta all’uomo moderno. Queste pagine rappresentano la minuziosa testimonianza di quanto sia attuale e dinamico il suo spirito, anzi la sua anima. Anima che, attraverso la voce di chi ha avuto la fortuna di conoscere Hillman di persona, giunge viva e brillante anche a noi lettori, coinvolti in quello stesso sentimento di ammirazione e riconoscenza che trapela dai contributi degli autori.
Questo libro non rappresenta, dunque, solo un elegante omaggio James Hillman. E’ piuttosto è uno strumento concreto che contribuisce a trasformare l’incolmabile vuoto lasciato da un grande uomo in un terreno fertile da coltivare, in virtù di un raccolto intellettuale sempre più fruttuoso e contagioso. 

La Boqueria



Barcellona non è solo sinonimo di Gaudì, Picasso o Dalì. L’architettura surreale che folleggia qua e là per strade e piazze racchiude, infatti, un cuore polposo e saporito che trasforma in opera d’arte anche la quotidianità.
La città gravita attorno alla Rambla, il viale alberato che da Plaza Catalunya si allunga per oltre un chilometro fino al porto. E in quest’effervescenza di passanti rapiti dalle suggestioni di Casa Batlló, Parc Güell e La Pedrera, a un certo punto si sbocca nel più grande mercato popolare della Spagna: la Boqueria. Eccolo il cuore palpitante della città, dove la gente compra, vende, vive.
Quest’ampio spazio coperto che ogni giorno si risveglia brulicante di voci e di colori è chiamato anche Mercat San Josep e si trova esattamente al numero 91 della Rambla. Visitare la Boqueria non è meno importante che visitare la Sagrada Familia perché entrare in sintonia con Barcellona senza penetrarne l’anima catalana sarebbe come pretendere di gustare appieno un frutto limitandosi alla buccia. Secondo un critico d’arte australiano, Robert Hughes, la chiave per capire la personalità catalana è cogliere l’equilibrio tra il seny (il senso comune razionale) e la rauxa (l’emozione spontanea viscerale). E qui, alla Boqueria, ho afferrato finalmente il senso di quest’affermazione.
Aggirarmi tra i banchi traboccanti d’ogni ben di Dio e mescolarmi alla gente mi ha fatto sentire un po’ come Alice nel Paese delle meraviglie. Un paese goloso dove ogni dettaglio è esagerato nell’aspetto, nel profumo e nel colore. La struttura è costruita in ferro scuro, quasi severo, e sovrasta il luogo dove tradizionalmente i contadini catalani venivano a vendere i prodotti alimentari ai ricchi commercianti barcellonesi. Sull'origine del nome pare esistano tre versioni. La prima lo farebbe derivare da un maestoso portale d’accesso alla città fortificata, voluto dal Conte Raimondo Berengario IV detto il Santo dopo la conquista di Almeria, nel 1147. Ammirare questa meraviglia lasciava i viandanti letteralmente a bocca aperta, da qui verrebbe il nome Badoqueria, trasformato poi nell’attuale Boqueria. La seconda versione, meno romantica e più bucolica, farebbe derivare il nome dal fatto che qui si vende abitualmente la carn de boc, ovvero la carne di montone, considerata dai catalani una vera e propria squisitezza. Mentre l’ultima più sbrigativa associa semplicemente il termine catalano Boqueria a quello francese Boucherie, ovvero macelleria.
In realtà la Boqueria è molto più di ciò che il suo nome evoca. La disposizione dei banchi dei venditori è già di per sé uno spettacolo ravvivato dai dialetti regionali che s’accavallano nell’aria. La scelta dei prodotti è vasta ed eccellente e il rigore con cui è indicata la provenienza di frutta, verdura, carni e pesci dà la misura dell’internazionalità del mercato. Frutta esotica dai colori solari s’intercala a cascate di pesce ancora guizzante; funghi fiabeschi dall’aspetto inquietante sfidano riottosi crostacei e molluschi sensuali; ortaggi d’ogni foggia e dimensione s’affiancano agli animali da cortile esibiti come vittime sacrificali. Eppure, la sanguinolenta tracotanza della carne non offende la garbata poesia dei vegetali: tutto è esasperato ma armonioso, proprio come in un quadro di Dalì. E proprio come per un quadro, anche qui è la mano dell’uomo l’artefice di tanta bellezza. Questa giostra di colori è opera meticolosa dei commercianti che animano i banchi con la stessa sensibilità che il pittore usa nei riguardi della tela. Nulla sembra essere lasciato al caso e ogni dettaglio pare assecondare un ritmo cromatico ineluttabile. E’ arte anche questa, soprattutto se si pensa ai laboriosi preliminari di quest’esposizione che si rinnova ogni mattina ogni giorno dell’anno, sempre uguale eppure mai identica a se stessa. Perché, si sa, la bellezza stupisce sempre.
Visitare la Boqueria è dunque un piacere estetico che tuttavia comporta un effetto collaterale pratico: procura un’ubriacatura dei sensi tale da indurre il visitatore a trascendere la pura contemplazione. La tentazione all’acquisto compulsivo è prepotente, grazie anche alla premura dei venditori che stuzzicano l’acquolina offrendo golosi assaggi. Per questo i commercianti hanno pensato di aprire anche alcuni chioschi dove poter consumare piacevolmente qualche assaggio più consistente, tipico della cucina catalana e non solo. Uno dei piatti classici più semplici è il pa amb tomaquet, una bruschetta di pomodori senz’aglio che accompagna normalmente salumi e formaggi. Ci sono poi i calçots, profumatissimi cipollotti tipici della Catalogna serviti alla brace e conditi con una salsa a base di pomodoro, mandorle, nocciole, peperoni e olio. Un’altra golosità inimitabile è l’esqueixada, a base di baccalà crudo con cipolla, pomodori e olive. Chi invece riuscisse a sfuggire a tali eccessi può sempre consolarsi con le variopinte centrifughe di frutta che rinfrescano qua e là i banchi, accentuando il carattere esotico del mercato.
Infine, per gli amanti più esigenti della cultura enogastronomica, la Boqueria offre anche un’aula gastronomica, un punto d’incontro per cuochi e artigiani, venditori e clienti, turisti e curiosi, tutti accomunati da un unico scopo: la cura e il trattamento degli alimenti freschi. E’ questo, infatti, il primo grande segreto per eleggere la Boqueria non solo come il più grande mercato popolare del Paese ma anche come il migliore per qualità e rigore. Un mercato che continua a lasciare i viandanti di oggi, come quelli di ieri, letteralmente a bocca aperta!