lunedì 3 settembre 2012

Penso, dunque sogno




Uno dei primi surrealisti, Emile Malespine, affermava che per capire Freud occorreva inforcare dei testicoli come fossero occhiali.
Fatto sta, che il padre della psicoanalisi ha contribuito non poco ad alimentare la fantasia e stimolare il genio creativo di molti artisti, in particolar modo dei surrealisti, appunto. Nondimeno, la letteratura è sempre stata di grande ispirazione per Freud, tanto che per molti la psicoanalisi è essa stessa un’opera d’arte molto simile a un romanzo.
Ma come si sono conosciuti psicoanalisi e surrealismo e com’è nata la reciproca attrazione?
Attorno al 1915, Luis Aragon e André Breton, studenti in medicina, interessati alla neurologia e alla psichiatria, hanno fatto propri i lavori di Pierre Janet, professore al Collège de France e, all’epoca, figura di spicco della psicologia. Nel suo saggioAutomatisme psychologicque del 1889, Janet sosteneva il ruolo fondamentale dei traumi psicologici sulla frammentazione dello spirito e anticipava di poco Freud nell’affermare l’importanza dei ricordi subconsci nella quotidianità.
Su questa scia intellettuale e culturale, nel 1924, Breton formula il ben noto manifesto del surrealismo, definendolo "un automatismo psichico puro per mezzo del quale ci si propone di esprimere, o verbalmente, o per iscritto, o in qualsiasi altro modo, il funzionamento reale del pensiero. Dettato dal pensiero, in assenza d'ogni controllo esercitato dalla ragione, al di fuori d'ogni preoccupazione estetica o morale … "
I surrealisti, quindi, hanno cominciato a considerare la creatività automatica come una forma di attività artistica superiore, l’unica in grado di raggiungere la fonte della creazione poetica suprema, svincolata dalla tirannia della ragione, appellandosi a quel nebuloso universo subconscio tanto proclamato da Freud. Breton, in realtà, aveva letto solo documenti di seconda mano riguardo Freud e le sue teorie, anche perché lui, così come la maggior parte dei suoi colleghi, non conosceva il tedesco. Nel 1921, decise di fare un viaggio a Vienna proprio per incontrare il mitico padre della psicoanalisi, il quale però pare lo ricevette piuttosto sbrigativamente, liquidandolo con una compassionevole pacca sulla spalla. Nonostante la sua delusione, Breton sostenne la psicoanalisi, sopportando anche le forti e continue tensioni ideologiche tra il movimento surrealista e quello psicoanalitico.
I surrealisti, infatti, non hanno mai sposato uno dei concetti fondamentali della psicoanalisi, quello del complesso d’Edipo, definendolo come una ridicola uniforme per un astratto manichino. Era il sogno l’anima del surrealismo. Così Freud, consapevole e forse un po’ invidioso del crescente riconoscimento che questi giovani sobillatori stavano conquistando anche in virtù di alcune sue teorie, cominciò a intrattenere una fitta corrispondenza con Breton. L’argomento fondamentale del loro epistolario era la relazione tra sogno e creazione artistica e, pare, che il tono tra i due fosse sempre piuttosto teso, reciprocamente sfidante come fossero due duellanti calamitati da sentimenti contrapposti d’amore e odio, sempre in bilico tra l’ironico e il pedante. Breton fu comunque fino all’ultimo un ammiratore di Freud, pur mantenendo una certa distanza dalle sue teorie, così come dal leninismo e dal marxismo, tanto che prese fermamente le sue difese durante la persecuzione nazista del 1938.
D’altro canto, anche la psicoanalisi è stata fortemente influenzata dal surrealismo. Jacques Lacan s’ispirò quasi certamente a Salvador Dalì nel suo famoso metodo della critica paranoica e gli stessi concetti di dialettica del desiderio, immaginario e inconscio strutturato sembrano ispirarsi in tutto e per tutto a due opere di Breton,L’Amour fou e Le message automaticque.
L’irriverenza e la licenza artistica dei surrealisti ha, infine, permesso loro di sopravvivere alla prepotenza della psicoanalisi, traendo il meglio di Freud per elaborare in maniera originale i metodi di esplorazione delle origini nascoste della metafora. Ogni opera surreale, infatti, può essere interpretata come metafora della realtà trasferendo così al fruitore un messaggio vivo, con una forza devastante, in maniera molto più eloquente e incisiva di qualsiasi opera dichiaratamente realista. In questo, lo scrittore surrealista somiglia un po’ a un astronauta ribelle che se ne va a zonzo nello spazio creativo per i fatti suoi, in un altrove letterario dove tutto è possibile, prendendo per mano il lettore e trasportandolo in un metauniverso colorato, onirico, senza confini, lasciandolo libero di pensare senza mai farlo prigioniero. Forse, Freud - ma questa è solo una mia fantasia - era persino invidioso di questo magico dono proprio degli artisti surrealisti, quello cioè di poter trasformare i sogni ad occhi chiusi in un prolungamento verso la realtà, traducendoli in sogni ad occhi aperti. Si sa, i poeti, quelli veri, vedono sempre più lontano!
Anche Freud, comunque, ha avuto le sue soddisfazioni in campo letterario, realizzando forse un sogno ad occhi aperti, tanto da meritarsi il premio Goethe, conferitogli nel 1930 a Francoforte. Se tutta la psicoanalisi può essere considerata davvero come uno strabiliante romanzo, la sua più bella creazione è, infatti, Freud stesso, il suo romanziere. Nel bene e nel male. Sigmund, come il Sigfried di Wagner, ha saputo forgiarsi una spada invincibile, che i nani della sua epoca mai avrebbero saputo inventare. Una spada cesellata di ‘inconscio’ e ‘resistenze’, inattaccabile quindi dalla ragionevole sfida intellettuale, e affilata da una dialettica potente e suggestiva, da far invidia a qualsiasi narratore d’ogni tempo. Non per niente – forse non tutti lo sanno – Sigmund in tedesco significa ‘bocca trionfante’, e questo eroico nome, accanto al cognome Freud, che significa ‘gioia’, sembra incredibilmente predire il senso della vita di quest’uomo, che ha fatto della sua esistenza una leggenda.
Se Freud era ambivalente nei confronti degli scrittori surrealisti, amava molto, invece, leggere Conan Doyle. Apprezzava particolarmente il metodo d’indagine logica di Sherlock Holmes che, in fin dei conti, non è poi molto lontano da quello di Freud stesso, perché gioca attorno a continue interpretazioni che sembrano dedotte da osservazioni altamente scientifiche. E guarda caso, il personaggio inventato da Doyle ha finito per prendere corpo, diventare un fantasma in carne ed ossa, tanto che per parecchio tempo, la posta di Londra ha ricevuto lettere indirizzate a: Sherlock Holmes, Baker Street 221b. Allo stesso modo, al numero 19 della Bergasse di Vienna, Freud analizzava le sue e i suoi pazienti come un artista all’opera. Immaginava di vedere sfilare davanti a sé l’inconscio delle persone, così come un viaggiatore seduto in treno, dal suo vagone, osserva il paesaggio scorrere e fluire fuori del finestrino. E così facendo, affrontando i demoni della psiche, assorbendo sensazioni e annotando fiumi di interpretazioni, questo Sherlock Holmes dell’anima ha scritto non solo il suo personalissimo, intimo romanzo, tessuto di sogni, fantasie, pulsioni, paure, frustrazioni e desideri altrui ma ha scolpito anche l’immenso prologo dell’intera storia della psicoanalisi, trascendendo la storia stessa per entrare definitivamente nella leggenda.
Non capita spesso che il senso del proprio vissuto sia compreso durante la vita stessa, più facile è lasciare che siano gli altri, a posteriori, a darne interpretazioni e giudizi. Invece, Freud sembrava rendersi perfettamente conto dell’impronta indelebile che stava lasciando sul suo cammino, tanto che durante uno dei suoi dialoghi con gli amici pare abbia affermato: “Se le mie deduzioni dovessero far nascere l'opinione che io abbia scritto un romanzo psicanalitico, risponderei che io stesso non mi esagero la portata dei miei risultati.”
Questo conferma, infine, come Freud e la psicoanalisi siano intimamente affini al surrealismo, invischiati in un reciproco e fertile contagio tuttora vivo e palpitante. E alla famosa massima cartesiana Cogito ergo sum, ovvero Penso dunque sono, emblema del realismo, l’irriverente surrealismo bretoniano ribatterebbe con un ironico sorriso, parafrasando così: Penso dunque sogno. In parole più esplicite, se il realismo mira all’essenza dell’Essere, il surrealismo aspira al suo Mistero, esattamente come la psicoanalisi.
E, come dice un mio caro amico, guarda caso scrittore: La realtà è un dovere. Il sogno, un diritto.

La ricerca






L’ho cercato nel sapere degli uomini
e ho trovato solo la Scienza.
L’ho cercato nella fantasia dei libri
e ho trovato solo la Poesia.
L’ho cercato nella bellezza delle chiese
e ho trovato solo l’Arte.
L’ho ignorato nel silenzio della Natura
e, finalmente, L’ho trovato.

IL MIO DIO

L'orgasmo e "l'area di dio"




Il sesso comincia e finisce nel cervello, si sa. Tutto quello che avviene durante l’atto amoroso, è gioco, fantasia, trasgressione e arte ma in sostanza e in qualsiasi modo si persegua, il piacere ultimo resta essenzialmente chimico. E’ straordinario quello che si può scoprire oggi osservando il cervello nei suoi meccanismi interni. Attraverso la Spect, o Single Photon Emission Computered Tomography, si possono seguire in diretta le più piccole vibrazioni neurali, visualizzando ciò che accade ai nostri circuiti sinaptici quando sentiamo paura, ansia, desiderio, eccitazione e, appunto, piacere.
Se la natura delle emozioni resta in parte ancora velata dalla straordinaria complessità della psiche, l’orgasmo – sublime premio a tante fatiche esistenziali, umane e animali - non sembra invece avere più segreti per i neuroscienziati. Al contrario, agli innamorati questo segreto piace e se lo raccontano da sempre con le parole d’amore tanto care ai poeti.
La risonanza magnetica, meno poeticamente, ne spiega il funzionamento seguendo il tortuoso percorso ormonale del piacere. Le stimolazioni delle zone erogene e degli organi sessuali si trasferiscono al cervello attraverso il midollo spinale, raggiungendo innanzitutto il talamo e disinibendo gradualmente l’attività della corteccia prefrontale, che normalmente fa da supervisore e mantiene sotto controllo gli impulsi. Quando l’eccitazione sensoriale raggiunge l’apice, esplode l’orgasmo, che si traduce in un rilascio di dopamina nel nucleo accumbens del cervello, mentre l’ipotalamo viene inondato di ossitocina, l’ormone dell’amore, dell’appagamento e della complicità affettiva.
Il meccanismo messo così a nudo e qui banalmente sintetizzato è, in realtà, molto più complesso e ingegnoso. Innanzitutto, ci sono importanti differenze tra uomini e donne, più o meno sensibili alle sollecitazioni di alcune parti del corpo che corrispondono rispettivamente a diverse zone cerebrali. Inoltre, l’intensità orgasmica varia dall’interesse verso la sessualità, dalla carica erotica, dalla capacità immaginativa e dal vissuto personale di ognuno. Tuttavia, dalle analisi tomografiche accumulate in tanti anni sono emerse delle regolarità davvero curiose.
Un fatto straordinario, per esempio – a parte quello di riuscire a indurre l’orgasmo in persone immobilizzate sotto un asettico scafandro (soprattutto le signore!) – è che le aree cerebrali attivate durante la sensazione di piacere erotico sono le stesse coinvolte nelle pratiche spirituali, religiose e mistiche. Due tipi di esperienze apparentemente agli antipodi agiscono, in realtà, allo stesso identico modo, a livello chimico e nervoso. E’ la parte destra del cervello, in particolare la zona dei lobi temporali sotto le tempie e dietro gli occhi, ad essere coinvolta nell’estasi, sia in quella erotica sia in quella spirituale. Lo si è verificato stimolando artificialmente un campione di soggetti, con una carica elettrica a basso voltaggio, proprio nell’area cerebrale coinvolta spontaneamente nel piacere sessuale. Ebbene, le persone così elettricamente eccitate hanno affermato di avvertire una presenza soprannaturale, divina, insieme ad una sensazione di intimo struggimento e di beatitudine diffusa. Qualcosa di molto simile all’estasi sessuale. Non a caso, alcuni grandi amatori utilizzano pratiche di meditazione tantrica, per prolungare la propria eccitazione sessuale in una tensione erotica concentrata e concertata, estremamente piacevole per sé e per la partner.
Sacro e profano s’intrecciano, dunque, nel nostro cervello. Non a caso, l’area cerebrale coinvolta nell’esperienza orgasmica come nella meditazione spirituale, è stata battezzata da qualche fantasioso neuroscienziato ‘area di Dio’. Forse, questo scienziato è stato ispirato dall’espressione di Santa Teresa d’Avila, immortalata dallo scalpello del Bernini, che ha saputo farne vibrare il corpo sotto il gelido marmo. La Santa scolpita in un verginale candore, con la testa reclinata, gli occhi trasognati e le labbra schiuse da un mistico piacere, incarna la sintesi dell’erotismo sacro, la materializzazione dell’afflato spirituale che si sublima in deliquio sensuale.
Se quella di Santa Teresa fosse estasi divina o terrena resta un mistero. La scienza non ha potuto spiarne la chimica ma l’arte ne ha saputo cogliere la bellezza. Forse, è vero dunque che gli artisti, insieme ai poeti, hanno il dono di trascendere i confini del visibile e d’intuire i segreti dell’Essere umano ancor prima degli scienziati, senza bisogno di formule e tecniche ma semplicemente ascoltando il cuore visionario dell’immaginazione.

Erotismo d'altri tempi




Madame Julie Récamier, nata a Lione nel 1777, era, come confermano i suoi ritratti, una donna bellissima e, a quanto risulta dalle cronache, anche intelligente, colta e spiritosa. Figlia di un banchiere di nome Bernard, si sposò - neanche a dirlo – con un banchiere parigino, un certo Jaques Récamier. Costui acquistò per lei il palazzo dell’ex ministro Necker, padre della più famosa Madame de Stael, di cui Julie divenne in seguito grande amica e, insieme a lei, acerrima rivale di Napoleone.
Leggendo di lei e intuendo la sua sensualità, sorge naturale in me la tentazione di frugare nelle ardenti passioni della dama e di curiosare un po’ nelle avventure erotiche che condivise con molti dei massimi personaggi dell’epoca, dal principe Augusto di Prussia a Gioacchino Murat, da Benjamin Constant a Chateaubriand. Di lei mi solletica, soprattutto, una frase che usava ripetere a chi, in qualche modo, alludeva alla disinvolta disponibilità di alcune dame a concedersi, spesso e volentieri, ai rudi capricci dei signori. “A loro piace tanto e a noi costa così poco …”
Trovo la prontezza di battuta talmente sagace che, confesso, mi sarebbe piaciuto conoscere personalmente Madame Récamier, tanto che avrei voluto intervistarla, curiosa di scoprire quale sublime arte erotica si celasse dietro a tanta disinvolta audacia. Mi sarebbe piaciuto frequentare il suo spregiudicato salotto per qualche giorno. Solo qualche giorno, non di più, per non cadere definitivamente in tentazione e, soprattutto, perché non avrei potuto vivere a lungo senza computer, idromassaggio e caffè espresso. Ogni epoca ha le sue schiavitù, ahimè! Tuttavia, mi sarei trattenuta un periodo sufficiente per carpirle qualche segreto ed esternarle la mia solidarietà, estendendola anche al marito - complice silente delle tresche amorose - promettendo loro un articolo che fosse all’altezza di tale vivacità amorosa.
A quei tempi, le dame come Julie Récamier sapevano sfruttare abilmente non solo la propria femminilità ma anche la gelosia maschile, inducendo i signori a compiere vere e proprie follie e, soprattutto, a rilanciare offerte e doni in cambio di passionali attenzioni. Con la loro sessualità disinibita e la languida civetteria, le dame francesi erano fate di desideri e il sogno di ogni signore colto, ricco e potente era quello di possederne una (o illudersi di possederla), perché la totale disinibizione era parte fondamentale dell’attrazione. Disinibizione che non era, tuttavia, sinonimo di volgarità e bassezza, tutt’altro: viso grazioso, collo di cigno, occhi sognanti e un concedersi elegante donavano a certe dame un sapore di purezza e castità che le rendeva ancora più peccaminose e desiderabili agli occhi dei potenziali amanti. Mi sarebbe piaciuto, dunque, incontrare anche alcuni dei personaggi che beneficiarono delle grazie di Madame Récamier, visto che con la sua scabrosa arte aveva un ascendente speciale su scrittori e poeti, musicisti e pittori, politici e regnanti.
Avrei chiacchierato con loro, li avrei seguiti nei deliziosi rituali di corteggiamento in cui pudore e malizia intrecciavano dialoghi vibranti dall’esito incerto e, proprio per questo, ancor più eccitanti. Sguardi e baciamano, ventagli e merletti, pizzi e ricami, mussola e veli: uno sfarzo delicato e allo stesso tempo insolente incorniciava l’esuberanza dei sensi. Anche le parole ricamavano trame inconfessabili e persino dietro quella battuta di Madame Récamier, scandalosamente trasgressiva, trapelava un colto erotismo cui tutto era concesso.
Di certo, in quei pochi giorni di lascivia lussuria sarei diventata anch’io una dama d’altri tempi e la mia intervista sarebbe sfumata in una naturale complicità. Mollemente adagiata su una chaise longue di velluto rosso, mi sarei abbeverata di quell’atmosfera seducente, amoreggiando con fragranze e aromi antichi che avrei reso pericolosamente miei. E poi? Poi, dopo aver condiviso con Madame Récamier e i suoi ospiti i sospiri del voluttuoso salotto, avrei forse sentito l’urgenza di scappar via, richiamata dall’impellenza di tornare qui, nel mio tempo e nel mio spazio, per dare un rigore allo sperdimento e mettere ordine al turbinio delle emozioni. Sarei volata qui, al mio computer, il mio salotto moderno, dove il baciamano è un buffo intruso e un bacio rubato un’illusione.
Nel mio solitario e nostalgico languore, avrei rincorso con la mente l’ebbrezza di quei giorni sfacciatamente liberi, cercando le parole adatte per cominciare l’articolo promesso ai miei compiacenti ospiti. E le avrei trovate proprio laggiù, tra i loro ardori, rubandole al fascinoso Chateaubriand che, scivolando sensualmente accanto a me, tra un’audace carezza e un brivido sul collo, mi aveva sussurrato: “Mia cara, ci son parole che dovrebbero essere usate una sola volta …”
Parole proibite, dunque, sospese all’ombra del segreto abbraccio tra desiderio e realtà.

Il riparatore di destini




Georges Simenon ha vissuto un’esistenza traboccante d’amore e di passione ma anche di inquietudine e dolore.
Aveva fame di tutto, sin da giovane. Aspirava la vita dalle narici, dalla bocca, da ogni poro, come un moribondo assetato d’eternità. Si nutriva dei barbagli di sole sulle case, del verdeggiare degli alberi, della frescura della pioggia, dei colori dei mercati, del sapore della frutta, delle luci e degli odori delle strade ma, soprattutto, era irresistibilmente attratto dalle persone. Ogni individuo era per lui un microcosmo in cui immergersi per viaggiare alla scoperta di nuovi imprevedibili orizzonti. I volti e i corpi delle donne rappresentavano per lo scrittore l’attrazione più irresistibile, l’accattivante accesso a una galassia seducente e inafferrabile: quella dell’animo femminile.
Gli bastava posare lo sguardo su “quei sederi ondeggianti per provare delle erezioni quasi dolorose. Quante volte ho placato quella fame in una strada buia, dentro un portone, con qualche ragazzina più grande di me … “.
Trascinato violentemente dall’eccitazione, Simenon non ha mai saputo rinunciare all’amore fisico ma nella sua audace esuberanza è sempre stato onesto e coerente, rispettando le pieghe più sensibili dell’animo umano cercando di non ferirne mai la dignità. Tutti i suoi romanzi attingono dalla vita reale, offrendo così uno specchio psicologicamente illuminante non solo dei piaceri della vita ma anche dei risvolti umani più oscuri e dolenti, spesso sepolti sotto cumuli di fugaci lussurie.
Nelle sue “Memorie intime” – il romanzo autobiografico dedicato alla figlia Marie-Jo, suicidatasi a venticinque anni con un colpo di rivoltella al cuore - Simenon confessa questa sua predisposizione ai piaceri dei sensi ma anche la sua condivisione con le infinite sofferenze delle persone conosciute durante la sua errabonda esistenza. E’ stato precoce testimone di così tante vite finite male, sprofondate in tragedia, che un giorno s’è chiesto come mai non ci fosse, per gli individui in difficoltà psicologiche, l’equivalente dei medici che si adoperano per sanare le malattie del corpo. Allora, lo scrittore era molto giovane e non conosceva Freud, che scopri solo più tardi, interessandosi in seguito molto di più a Jung e alle sue teorie. Tuttavia Simenon ha sempre tentato di superare la psicoanalisi, che a suo giudizio spesso non riusciva a spiegare la complessità della natura umana.
Così, Simenon ha cominciato a immaginare una figura sostitutiva dell’analista classico: un personaggio vago e contraddittorio, proprio come l’animo umano, che svolgesse nella società un ruolo particolare e ben preciso. Quello di “riparatore di destini”. Fermare in tempo una ragazza che si vuole gettare da un ponte, consolare un amante deluso che si annega nell’alcol, regalare semplicemente un sorriso a chi non ne ha più dentro di sé. Arrivare nel posto giusto al momento giusto, con passo delicato, prima che la sofferenza spinga definitivamente l’essere umano oltre il baratro del nulla.
Tutto piuttosto vago, riconosceva Simenon, tanto che non osava parlare pubblicamente di questa sua fantasia per non sembrare ridicolo. Così, per mascherare quest’idea tanto bizzarra quanto insistente sotto una veste accettabile, ha deciso di affibbiare al suo Maigret l’espressione di “riparatore di destini”, attribuendo al commissario la personificazione di soccorritore psicologico di anime alla deriva.
"Comprendere e non giudicare", questa è la frase emblematica che contraddistingue la personalità e la missione intima di Simenon - Maigret. Il commissario, infatti, di fronte alla frequente inconciliabilità tra legge e giustizia, sceglie sempre di agire in maniera che le cose si aggiustino secondo la giustizia umana, cercando di entrare in empatia con gli equilibri invisibili delle persone, quelli più delicati, quelli più veri.
Probabilmente è stata una donna a ispirare questa dimensione psicologica di Simenon. Non una delle diecimila femmine – tante sono le leggendarie avventure attribuite al vorace scrittore – con cui ha condiviso transitorie passioni. Ma una donna conturbante, eccessiva, erotizzante, conosciuta durante il primo pallido matrimonio dello scrittore con Tigy, e destinata a sconvolgere la sua vita. Questa diva dalle trecce nere, dalla figura flessuosa e dalla voce da letto, è Denyse Ouimet, o semplicemente D., come Simenon ama chiamarla nei suoi scritti. Trasgressiva e contraddittoria sin dal loro primissimo incontro, D. diventerà sua seconda moglie e madre della piccola Marie-Jo, dopo un’appassionata quanto travagliata convivenza con Simenon e un rapporto altrettanto morboso con la sconsolata figlia.
Appena conosciuta “credevo di sentirla debole, disarmata, senza punti d’appoggio, lacerata da aspirazioni contraddittorie … Non volevo cambiarla. Ero persuaso che i miei sforzi mirassero a farle scoprire se stessa, la vera D. che si credeva obbligata, come se avesse paura, a indossare via via delle maschere. Avevo ragione? Avevo torto? Ad ogni modo ero sincero.” Inconsapevolmente, travolto da una passione tanto focosa quanto pericolosa, Simenon ha cercato d’essere il riparatore del destino di D., anche se alla fine i destini di entrambi sono stati travolti da un duplice, imprevedibile epilogo: lo squilibrio psichico di D. e il suicidio di Marie-Jo. Mentre il primo era forse intuibile dalle crescenti intemperanze della donna, il secondo ha straziato la mente e il cuore dello scrittore. Di fronte alla propria disperata impotenza nel riparare il destino della persona più amata, Simenon continuerà a far vivere la sua bambina attraverso i ricordi, le confessioni e le tenere parole contenute nelle sue memorie, esorcizzando così la sua sconfitta.
“Avevi un bisogno di un assoluto che il tuo Dad non poteva soddisfare. Ti voglio bene bambina mia e sono felice che tu abbia trovato finalmente la pace.” 
Sono pagine dolorose, queste, eppure in un certo senso salvifiche per lo scrittore. Forse, svuotare la propria vita nei romanzi è uno dei segreti in grado di scolpire i personaggi su carta in persone reali, capaci di sopravvivere alle pagine in cui sono racchiusi, diventando così, insieme ai propri autori, complici protagonisti di vita eterna.
“Gli uomini leggono, perché quasi come il pane, hanno bisogno di finzione” diceva Simenon. E lui che di romanzi ne scrisse a centinaia, di cosa aveva bisogno, che cosa cercava nella scrittura un uomo così famelico di vita vera? Non è forse diventato un inconsapevole riparatore di destini di tutti quei lettori che nei suoi libri si sono immersi, persi e ritrovati? Tutti noi, amanti della letteratura, vorremmo essere dei Simenon e scrivere meravigliosi romanzi, tuttavia anche accontentandoci d’essere modesti lettori riusciamo ad attingere alla stessa fonte emotiva e riflessiva da cui essi nascono. Leggendo, ci incontriamo idealmente a metà strada con l’autore delle storie raccontate, il quale ci porta per mano dentro il suo mondo, accogliendo in esso il nostro, comprendendolo e non giudicandolo, in una comune catarsi.
Probabilmente, in questo senso è superfluo distinguere tra lettura e scrittura, perché entrambe le dimensioni sgorgano da questa istintiva, insaziabile fame di emozioni condivise che stilla da ogni essere umano. E di conseguenza, è superfluo anche distinguere tra finzione e verità, tra personaggi inventati e reali, perché lo spasmodico bisogno di finzione di cui parla Simenon non galleggia in superficie, bensì affonda in una dimensione profonda e radicata: spesso, ci specchiamo nella finzione dei romanzi perché nella vita siamo incapaci di guardare direttamente la verità. Quante potenziali Marie-Jo, quanti padri sconfitti e quanti salvifici Maigret si annidano tra noi?
Forse, ognuno di noi, leggendo o scrivendo, può trovare conforto e dare un senso alla propria incompiutezza, diventando momentaneamente il riparatore del suo stesso destino, come sarebbe piaciuto a Simenon.

Il gatto




Ogni storia narrata da Georges Simenon ha una sua stagione, con un suo colore e un suo odore. E’ come se l’atmosfera esteriore riflettesse lo stato d’animo dei personaggi e, probabilmente, dell’autore stesso.
Simenon ha scritto “Le Chat” nella prima settimana d’ottobre del 1966, a Epalinges, nella sua grande villa presso Losanna. In quel periodo era rimasto quasi solo, con i suoi sessant’anni ma ancora tanta voglia di vivere e di scrivere. Denyse, la sua seconda moglie, l’aveva lasciato definitivamente da qualche anno e i figli, ormai grandi, avevano preso ognuno la propria strada, a parte il più piccolo, Nicolas. Lontano, dunque, dalla grande famiglia e dalle abituali femmes de chambre, lo scrittore sembra aver voluto trarre ispirazione proprio da questo clima intimo di profonda meditazione e d’isolamento psicologico per scrivere questo romanzo. Il trascorrere del tempo in un’apparente immobilità, i ricordi della giovinezza e i sentimenti di un’età adulta volta verso la vecchiaia si mescolano nel racconto con tale intensità da ispirare una sceneggiatura, poco dopo la prima pubblicazione del libro. Nel 1971, il romanzo diventa, infatti, una pellicola cinematografica con l’omonimo titolo, sotto la regia di Pierre Granier-Deferre e con l’interpretazione di Simone Signoret e Jean Gabin.
“Il Gatto”, ripubblicato di recente da Adelphi, si svolge in novembre e racconta la grottesca relazione di due anziani coniugi, Marguerite e Emile Bouin. La coppia vive in un appartamento di Parigi in cui tutto pare immobile e ovattato come in una fotografia ed è solo l’orologio a pendolo, con il fremito titubante delle sue lancette nere, a ricordare ogni mezz’ora che il tempo passa. Fuori, il ticchettio della pioggia si confonde allo zampillio della fontana di marmo, dove un amorino di bronzo sorregge un pesce che sputa acqua. Solo quando la betoniera del cantiere di fronte si spegne e il frastuono di ferraglia cede il passo alla quiete della sera, si può percepire bene il lamento della pioggia sotto la luce tremula dei lampioni.
Ma non è sempre tutto uggioso e statico nella vita dell’anziana coppia. Anche il loro autunno ha un colore e un odore, frutto dei ricordi e dei rimpianti, che Simenon pennella qua e là nel libro come fosse la tela d’un pittore. Il color malva aleggia soffice come uno spruzzo di primavera tra la pioggia. E’ il colore del tailleur che Marguerite Bouin indossa nelle giornate di sole, anche in quelle autunnali, insieme a un cappellino bianco che potrebbe dare alla donna un aspetto adolescenziale. In realtà, Marguerite ha settantuno anni e della sua giovinezza ha conservato solo l’eccessiva magrezza, il pallore etereo e un sorriso mellifluo ormai avvizzito. Sferruzza a maglia con religiosa minuzia, tutti i giorni, seduta accanto al camino acceso davanti a una televisione inascoltata, combattuta tra i rosei ricordi del suo passato e la piatta quotidianità senza orizzonti. I bagliori di una famiglia dell’alta borghesia poi caduta in rovina e l’affetto per l’ex marito musicista defunto sono ciò che di più caro conserva nel cuore, per consolarsi del grigio presente.
Anche Emile Bouin, suo marito, siede abitualmente nella propria poltrona accanto al camino, apparentemente immerso nella lettura di un quotidiano sgualcito. In realtà, è anche lui rapito da rancorose memorie e languidi ricordi. Anch’egli è vedovo, di una donna allegra e polposa, tutto l’opposto di Marguerite che gli evoca piuttosto un uccellino lezioso e petulante. Come si sia potuto invaghire di Marguerite al punto da risposarsi in tarda età non lo capirà mai! Tuttavia, Emile non si è rassegnato ai suoi settantaquattro anni, né alla promessa fedeltà coniugale, ancora animato da quel temperamento sanguigno che solo gli operai delle balieu ostinate come la sua possono vantare. E’ un abitudinario, tanto che nemmeno s’è accorto d’invecchiare, così rapito dalla ritualità di gesti che da anni replica identici a se stessi. Col tempo è diventato insensibile a tante cose, tra cui gli odori, a parte quello della cera per il parquet. Emile lo trova talmente buono da voler pulire il pavimento di casa Bouin una volta la settimana, non per far piacere alla moglie ma solo per goderne gli effluvi.
Le giornate trascorse insieme si susseguono identiche, da anni. Nell’umido, caldo silenzio del salotto, Emile dalla sua poltrona ogni tanto appallottola un foglietto di carta su cui scrive qualcosa e lo lancia in grembo a Marguerite che, con soppesata lentezza, lo srotola e lo legge, prima di gettarlo nel camino con un sorriso spento. “IL GATTO”, di solito c’è scritto. Al che, Marguerite con tutta calma s’arma di un altro foglietto di carta e di una matita, rilanciando in faccia al marito le solite due parole in risposta: “IL PAPPAGALLO”.  Ecco, così sono pari!
A volte i messaggi sono più articolati ma la storia è praticamente sempre la stessa. I coniugi Bouin comunicano così, attraverso brevi frasi scritte senza mai parlare, da quattro anni. Esattamente, da quando Emile ha accusato Marguerite di aver assassinato il povero gatto che lui amava e lei non sopportava, e perciò s’è vendicato spennando a sangue il bel pappagallo a lei tanto caro. Quattro anni di reciproche accuse in assoluto silenzio, scandito da sguardi feroci e battute di carta, in una sfida claustrofobica e maniacale. Nessuno dei due può deporre le armi, questo gioco è diventato la loro vita ed è fonte di un segreto e malato piacere: mandarsi biglietti velenosi è per loro naturale e necessario come per gli amanti è scambiarsi baci e carezze. La parola ‘gioco’, in effetti, evoca erroneamente una nota di fanciullesca allegria. In realtà, Marguerite ed Emile sono due anziani logorati da un odio rancoroso che li ha uniti indissolubilmente, consumandoli giorno dopo giorno in una grottesca asfissia. Tutto si svolge in modo lento e cadenzato nelle loro vite, due esistenze intrecciate e allo stesso tempo separate da un sentimento puro, senza ombre e contaminazioni, di cui nessuno dei due può fare a meno, perché quello è diventato l’unico antidoto contro la morte.
“Chi di noi due se ne andrà per primo?” E’ questo l’unico pensiero che tiene in vita i coniugi Bouin, ognuno scommettendo tra sé e sé su chi sopravvivrà all’altro. Tuttavia, quando alla fine uno dei due si troverà realmente solo, l’odio tutt’a un tratto sfumerà insieme ai rancori e all’amaro piacere della vendetta, per lasciar posto all’unica certezza della vita. Perché si arriva sempre goffi e nudi di fronte alla morte. In un lampo, si riaccenderà nell’anima di chi resta l’affetto per le cose semplici e belle fino a quell’istante condivise: il ticchettio della pioggia nelle sere d’autunno, lo svolazzante tailleur color malva sotto il sole pallido e l’odore buono di cera passato sul parquet di un appartamento luccicante solo d’inutili ricordi.
Il gioco dei coniugi Bouin finisce quando uno dei due perde per sempre.  Resta vivo, invece, il piacere della lettura di questo romanzo di Georges Simenon che sembra invitarci a sedere accanto a sé, alla macchina da scrivere, nella sua casa vuota di Epalinges. E con la sua profonda levità, mette a nudo anche la nostra anima, accompagnandoci attraverso l’ineluttabilità del tempo e della vecchiezza che, paradossalmente, sembra diventare l’ultima stagione per tornare ancora una volta bambini. 

Georges Simenon e Il destino dei Malou




Eugène Malou aveva ancora gli occhi spalancati. Era questa la cosa più inquietante. Uno dei due occhi, a dire il vero, era quasi completamente uscito dall’orbita, e i rantoli dalla bocca, insieme a tutto il sangue sparso sull’asfalto, facevano somigliare l’uomo a una povera bestia agonizzante. Una bestia moribonda, supplichevole del colpo di grazia.
S’era sparato con la pistola alla tempia, uscendo dall’abitazione del conte d’Estier, eppure Eugène Malou, caparbio com’era, sembrava deciso a non morire, quasi a soddisfare l’ultimo capriccio, l’ultimo dispetto rivolto a tutti quelli che gli volevano male. Resisteva come un gatto rognoso preso a sassate da una banda di balordi, in mezzo ai curiosi accorsi a frotte attorno al grottesco strazio. Una specie di vergogna collettiva si mescolava alla sofferenza dell’uomo, trasformando ognuno dei presenti in un involontario colpevole. Nessuno si aspettava un gesto simile da lui, anche se tutti, compresi i giornali, lo screditavano sfacciatamente augurandogli una brutta fine. Che almeno morisse in fretta, dunque!
Erano stati i debiti a spingere Eugène Malou al suicidio? Possibile che un uomo così ostinato e intraprendente avesse deciso di farsi fuori solo per questioni di denaro, forse per via di un prestito negato dal conte d’Estier? Qualcuno l’aveva visto fare una telefonata, poco prima di suicidarsi. A chi e perché?
Quel freddo pomeriggio d’inverno, sotto un cielo crepuscolare, Eugène Malou finalmente moriva sottratto alla penosa agonia, lasciando in eredità un enigma che sarebbe toccato al figlio minore, Alain, cercare di risolvere. Appena diciassettenne, Alain, che conservava ancora il pudore di un bambino, si trovava d’un tratto catapultato in una realtà troppo pesante per la sua naturale ingenuità. C’erano tante di quelle cose che lui non sapeva, tante di quelle domande che non aveva mai pensato di fare! Era solo uno studente, un bravo ragazzo, che faceva per la prima volta il suo ingresso nella vita adulta, arrivandoci impacciato e inesperto, armato solo del suo istintivo coraggio. La madre, la signora Malou, era invece una donna spregiudicata e avida, innamorata solo dei soldi e dei gioielli di famiglia. Sembrava fragile, con i lineamenti morbidi di una donna di quarantacinque anni che si prende cura del suo aspetto, eppure non aveva avuto neanche un attimo di cedimento di fronte alla morte del marito. La sorella Corine, così femmina, era una procace e impudica ragazza che aveva imparato presto a sfruttare la propria sensualità per ottenere ciò che desiderava. Tutto in lei era morbido, era solo carne e forme … possibile che non capisse quanto fosse imbarazzante per lui vederla sempre seminuda? E il fratellastro maggiore, Edgard, era solo un pecorone belante e stupido, nato per uno scherzo del destino in mezzo ai lupi.
Ma chi era, in realtà, Eugène Malou? Uno spericolato imprenditore che non ha lasciato alla famiglia nemmeno i soldi per il funerale. Un uomo che andava perennemente di fretta, al punto che veniva voglia di trattenerlo per il bavero della giacca. Ma che uomo era stato? Poco espansivo, silenzioso, ambiguo, misterioso, spesso assente e distratto con i figli, eppure a modo suo generoso e onesto con i pochi amici. Solamente ora, dopo la sua morte, Alain imparerà a conoscere l’estraneo con cui ha sempre vissuto, ricostruendo una storia inimmaginabile, che svelerà come le apparenze siano spesso velenosi inganni in grado di condannare a morte una persona senza possibilità di riscatto. Alain troverà il coraggio di sradicarsi definitivamente dalle ipocrisie e dai rancori della famiglia e, confortato dai consigli di poche, pochissime persone amiche, scoprirà un’altra verità che lo condurrà al suo destino. Il destino dei Malou.
Forse, in fin dei conti, quell’uomo che Alain aveva conosciuto appena, che non si era mai curato di conoscere perché non immaginava che potesse essere tanto diverso da come appariva, quell’uomo che era morto sul pavimento sporco di una farmacia di quartiere, ebbene quell’uomo era sempre stato solo! … Vero papà?
Così, se Eugène Malou aveva scritto i primi capitoli di una sordida storia di famiglia, Alain ne avrebbe firmato l’epilogo, giungendo a capire che essere un uomo è molto più difficile e raro che essere un uomo onesto. Adesso c’era un solo Malou, che di lì a poco si sarebbe avventurato nel suo futuro, senza odio e senza vergogna, forte delle proprie radici. Un Malou che ha saputo trovare la propria strada con la complicità e il silente affetto dell’unico compagno di viaggio degno di questa sofferta iniziazione alla vita. Il suo amato papà.

A letto con l'autore




Ho consumato gran parte di questa domenica pomeriggio a letto, insieme a uno scrittore che amo. Lo amo a tal punto che quando sto con lui dimentico il mondo e il tempo, divento pigra e mi abbandono completamente, sedotta dalle sue parole. Cos’avrei potuto chiedere di meglio oggi? Fuori, una pioggerella insolente bussava alla mia malinconia, invano nonostante la sua insistenza. Dentro, invece, grazie al mio complice compagno, la stanza s'è colorata tutt’a un tratto d’un azzurro chiarissimo, infantile, come se mi trovassi improvvisamente immersa nell’acquerello di un bambino ... il letto s'è fatto mare e sul soffitto i gabbiani hanno cominciato a danzare nel vento ridendo di me, di noi distesi quaggiù, immobili sotto le loro ali bianche, e un profumo di libertà ha preso a inebriare sempre più i miei sensi…
Quando sto con lui succede sempre così! Questa volta, mi ha portato via in treno, senza alcun preavviso. Il ritmo del treno si è impossessato di noi … una cadenza regolare sul cui sottofondo si inserivano, come le parole delle canzoni, spezzoni di frasi, ricordi, immagini che scorrevano davanti agli occhi, una casupola dorata in aperta campagna con una donna grassa che faceva il bucato, un capostazione che agitava la bandierina rossa in una stazione giocattolo … Siamo, così, fuggiti da una Parigi scompigliata da schiaffi d’aria gelida, per ritrovarci nel tiepido sud della Francia, tra i profumi speziati di Marsiglia e i tramonti rosa di Nizza. Qui, anche l’inverno più rigido odora di primavera ed è facile lasciarsi andare alla dolcezza dell’oblio, giocare all’adolescenza e farsi sordi al richiamo del presente …
Lui, il mio compagno di viaggio di oggi, è Georges Simenon. Ho trovato il suo ultimo libro questa mattina in libreria e, appena ho potuto, mi son rifugiata nella mia stanza, ho chiuso fuori il mondo e ho bevuto quelle pagine in un sol sorso, rivivendo le atmosfere romantiche e sensuali che sempre animano i suoi racconti.
Mi pare un dono, ogni volta che esce un romanzo di un autore che amo, a maggior ragione se scomparso. Sa di miracoloso. E’ come se si trattasse di un amante che arriva ogni volta puntuale a un tacito appuntamento, sempre con una sorpresa, ogni volta diversa eppure immancabilmente fedele al suo stile, per stupire ma, al tempo stesso, rassicurare la sua innamorata di sempre. E, come ogni amante che si rispetti, non delude mai le attese, anzi … supera se stesso ad ogni incontro.
Questo libro, edito da Adelphi, s’intitola “La fuga del Signor Monde” e fu scritto da Simenon nell’aprile del 1944, in Vandea. Racconta la storia di un ricco parigino, il signor Norbert Monde, che il giorno del suo quarantottesimo compleanno decide di cambiar vita per cominciare a vivere finalmente la sua. Cosa che avrebbe voluto fare sin da ragazzo, senza, però, trovare mai il coraggio. Il sole ebbe un ruolo fondamentale quel giorno… Dopo molte peripezie, il signor Monde riprenderà la sua identità, senza però essere più la stessa persona. Sarà un uomo libero, senza più fantasmi né ombre, capace di guardare la gente negli occhi con fredda serenità. 
Il manoscritto apparve solo un anno dopo, nel ’45, e Jean Renoir lo trovò magnifico, tanto da volerne trarre un film.
Io questo bellissimo film l’ho vissuto oggi, nell’intimità del mio letto, anzi … del mio mare, e ora che i gabbiani si son rassegnati al riposo della notte, a me pare ancora di girovagare a braccetto con Simenon per le infinite sfumature del suo acquerello …

Deliziosa perfidia




Con deliziosa perfidia, intingi le tue frecce nel soave veleno del desiderio e attenti alla mia vita con parole fatali che, come dardi acuminati, mi fanno dolcemente sanguinare.
In questa guerra gentile, che sobilla i miei sensi, non voglio lottare ma farmi conquistare. M'arrendo e, lasciva, mi schiudo al febbrile assedio. Penetra il mio cuore, feconda la mia anima e, dopo lunga battaglia, muori dentro me mentre io, finalmente, morirò stretta a te.
A volte, morire insieme è vivere per sempre.

La vendetta del piacere




Mangiare è una questione molto intima. Ha a che fare con l’istinto primario della sessualità e le sensazioni di piacere trasmesse dal cibo utilizzano lo stesso linguaggio della sensualità e dell’erotismo, in cui tutti i sensi dialogano all’unisono. Spesso si sottovaluta l’antica animalità che ci porta ad apprezzare un piatto, perché siamo addomesticati dalla civiltà. Abbiamo perso l’abitudine a toccare, leccare, annusare e persino ascoltare un cibo, anestetizzati dalla dimensione formale, sociale e conviviale del pranzo, diventando così sempre più sordi all’alchimia dei sensi.
Dimentichiamo per un attimo la forma e concentriamoci sull’essenza. Ecco, una cena ben congeniata dovrebbe essere, a mio parere, come una sinfonia. Un lento crescendo, che sboccia con note soavi per solleticare progressivamente i sensi e che fiorisce nei delicati arpeggi di un intermezzo, per culminare con la trionfale fanfara del piatto principe, e sfumare, infine, nei morbidi accordi del dessert. Procedere così, condividendo possibilmente il pasto con una complice compagnia, è un po’ come far l’amore con stile, senza fretta, lasciandosi sedurre dalle insinuazioni, assaporando le allusioni, arrivando all’estasi con il sospirato fragore, per inabissarsi infine in un amabile e meritato riposo.
C’è un tipo di cibo che, più di ogni altro, risveglia in me questo coinvolgimento primordiale del piacere a tavola. E’ il pesce crudo che, nella sua semplicità, evoca insieme delicatezza e forza. Non sto pensando alla cucina giapponese ora, comunque deliziosa agli occhi e al palato, ma alla nostra, a quella mediterranea, talmente ricca e fantasiosa da poter essere apprezzata anche così: cruda, vergine, … viva!
L’ultima volta che mi è capitato di gustare pesce crudo ‘all’italiana’ è stato pochi giorni fa a Roma, in un ristorante non lontano da Campo de’ Fiori, noto proprio per le sue crudità marine. Una cena memorabile, che ricordo ancora con divertito piacere, soprattutto per la compagnia del caro amico romano che mi ha invitato! Neanche il tempo di accomodarci al tavolo, che adocchio già all’entrata le vittime sacrificali, mentre il mio gentile ospite spera silenziosamente di trovare nel menù qualche cosa di cotto, non condividendo i miei gusti culinari, a suo dire ‘selvaggi’.  In una grande cesta colma di ghiaccio, all’ingresso del locale, fanno bella mostra di sé pesci bellissimi di diverse qualità, colori e grandezza, proprio come al mercato, e tra quelli spiccano dei meravigliosi grappoli di gamberi e ciuffi di scampi di un arancione solare, ancora combattivi e fieri. Gli scampi, con quelle antenne vigili e le tenaglie ancora mobili sembrano tanti piccoli guerrieri intenti a sfidare i potenziali avventori ma, sfortunatamente per loro, tutta questa vitalità li rende ancora più appetibili. Infatti, poco dopo al tavolo, mentre al mio ospite, con sua somma soddisfazione, viene servito un meraviglioso fragolino al forno contornato da teneri anelli di calamari alla griglia, davanti a me si materializza una vera e propria opera d’arte della natura: una decina di quei magnifici crostacei da me scelti pocanzi, stanno semplicemente adagiati su un letto di ghiaccio in un enorme piatto bianco, ritmato da timide fettine di limone, che mettono ancor più in risalto il colore vivace dei carapaci.
Chi ama mangiare il pesce crudo sa bene quanto sia importante che la catena del freddo non s’interrompa, per evitare inconvenienti davvero spiacevoli. La creatura pescata dovrebbe guizzare dal mare direttamente alla cesta del ghiaccio, dal ghiaccio al piatto e, infine, dal piatto alla bocca, concedendo al commensale la sfumatura di tempo sufficiente per pregustare quella primitiva bontà innanzitutto con gli occhi. Proprio come in quest’occasione.
La sensazione è di addentare direttamente la natura e assume una connotazione vagamente perversa, ancora più morbosa quando si tratta di crostacei.  Sarà perché si presentano nel piatto ancora intatti, appena tramortiti nella loro verginale bellezza. Sarà perché, prima di poter infilare in bocca la tenera polpa, occorre afferrarli, meglio ancora con le dita, e sgusciare con cura quei corpi la cui unica colpa è quella di eccitare i capricci di gola di noi umani. Me in questo caso.
Le mani rivelano le nostre intenzioni e il nostro temperamento, anche a tavola. Pulire un gambero o uno scampo è un’operazione cerimoniosa, da svolgere con meticoloso rispetto e pudore. Piccoli gesti che esprimono reverenza nei confronti della creatura sacrificata al palato, quasi a voler agire la violenza con garbo, per sedare il senso di colpa. Almeno così è per me e cerco di spiegarlo al mio ospite seduto di fronte, che mi guarda incredulo, a metà tra il fascino e il raccapriccio, mentre accarezzo con gli occhi le povere creature.
“Assaggia, devi assolutamente provare!” … Vano è il mio tentativo di sedurre l’amico con un primo delizioso gambero rosso, privo di qualsiasi trucco, salsa, condimento o spezia. La creatura resta lì, nuda, brutalmente ferita dalla forchetta, sospesa a metà tavolo per qualche istante, finché scompare definitivamente nella mia bocca voluttuosa. La vitalità del mare si sprigiona e mi delizia, tanto che chiudo gli occhi e con un po’ d’immaginazione mi sembra di annusarne la brezza.  Il concerto dei sensi ha avuto inizio, sento le prime note accendersi in me! Ma ecco che l’estasi viene bruscamente interrotta prima del mio secondo assalto al piatto, perché qualcosa d’inatteso accade. Non uno, bensì due scampi, i più grandi, si sono attanagliati tra loro a ridosso di una fetta di limone in mezzo al ghiaccio e non intendono sciogliersi da quel grottesco abbraccio. Sembravano tramortiti, invece sono ancora maledettamente vivi e questo mi crea grande disagio, perché non m’era mai capitato di trovarmi di fronte a un ‘cibo’ ancora così vivace e bellicoso nel piatto.
“Assassina! Crudele, come puoi?” Gli occhi del mio amico son più eloquenti di ogni possibile parola, mentre io rivolgo i miei alla disperata ricerca del maître perché mi aiuti ad affrontare l’imprevisto. Niente di più normale, evidentemente da queste parti: “Permette signora?” Con nonchalance, davanti ai nostri occhi, il maître pone elegantemente fine al duello con un lesto armeggiare di forchetta e coltello. Un leggero scricchiolio et voilà, gli scampi battaglieri son sconfitti e consegnati alla loro sorte, ovvero a me. Tentenno, ancora incredula, eppure non mi ritraggo dal piatto ora immobile che mi osserva. Afferro un carapace ancora resistente che cede, infine, tra le mie mani, offrendomi la polpa rosa esanime. Il sapore sembra diffondersi in bocca ancor più intenso, più melodioso, più rigoglioso. Somiglia a un bacio, leggero e prolungato! Ma forse è solo l’illusione di assaporare un’anima appena rubata alla vita, non so … Sembra un sortilegio, mi sento crudele eppure è eccitante e non mi sottraggo a quest’attrazione conflittuale del piacere. 
Nessun’altra sorpresa interrompe l’estasi. La cena prosegue tra carezze di sapore e mugolii di piacere che lasciano traccia nell’ammonticchiarsi dei carapaci vuoti, fino ad approdare all’arcobaleno dei sorbetti di frutta. Solo un lieve rimorso affiora ogni tanto qua e là nel mio cuore, rimorso che però annego insieme a sorsi di un vino bianco di Sicilia che sa di sole, riscaldata dalle battute del mio ospite, stuzzicato dal mio evidente godimento.
Beh, dire che la cena sia finita senza sorprese non è del tutto esatto. Infatti, al termine del concerto, il maître (quello senza scrupoli) con la stessa nonchalance di poco prima, adagia il conto sul tavolo con un’espressione beffarda. A quel punto, il mio caro amico si fa tutt’a un tratto pallido, il sorriso gli si spegne addosso, mentre il suo sguardo esterrefatto accende in me il vago sospetto che quella cena rimarrà davvero memorabile e soprattutto … irripetibile!
“Cosa c’è?” gli chiedo.
“Oh, niente – mi risponde con un sorriso forzato – semplicemente … i TUOI crostacei si sono vendicati!”

La danza del calabrone




La Natura è una benevola e astuta fattucchiera.
Lo rivela soprattutto in primavera, quando si veste di colori sgargianti e si profuma di fragranze inebrianti, stanca del frigido inverno. Sembra un’adolescente verginale che sboccia in procace donna, destinata a un iniziatico amplesso. Il suo scopo, ora, è quello di flirtare, di adescare e di sedurre le creature alate che, come corteggiatori ebbri di gioia, amoreggiano da fiore in fiore. Saranno loro a perpetuare il miracolo della vita, attraverso un’inconsapevole e istintiva copulazione cosmica.
Quello dei fiori è un mondo voluttuoso, turgido e zuccherino. Spesso delicato, ma talvolta anche osceno e inquietante, si manifesta in infinite declinazioni aromatiche, cromatiche, di simiglianze e di allusioni. Il profumo delle corolle diffonde nell’aria una sinfonia irresistibile, trasportata da ali d’uccelli e turbinar d’insetti. E’ una melodia che lecca la pelle e che carezza l’anima, ridestando anche noi umani a nuova vita. Il profumo inebriante si trasforma, così, in musica e invita alla danza più sensuale dell’Universo, la danza dell’amore.
Forse è proprio questa la musica che animava le donne nell’antica Grecia quando, in primavera, si recavano nei prati a cogliere i fiori da offrire a Era. Lei, la Grande Madre, era venerata nel Tempio di Argo come Antheia, la dea dei fiori da sempre simboli eccelsi della femminilità. Così profumati e vibranti, dalle tenere carni schiuse e accattivanti, i fiori sono l’organo sessuale più affascinante del mondo vegetale, emblema della seduzione, del possesso e dell’osare. E come tutte le conquiste, anche questa non è mai priva di rischi per le creature alate, costrette a destreggiarsi tra ostacoli spinosi, trucchi e trabocchetti.
Le insidie non scoraggiano, tuttavia, gli appetiti sessuali. Lo scopo dei fiori è ineluttabile ed è quello di perpetrare la vita attraverso questo sposalizio cosmico. E’ per questo che i fiori assumono colori e profumazioni così attraenti e nulla nel loro aspetto è casuale. I fiori fecondati dalle farfalle notturne sono pallidi, spesso bianchi, per essere più visibili al buio, e diffondono effluvi mielati per ingolosire i lepidotteri; i fiori che adescano mosche sono, invece, di colore bruno o purpureo ed emanano odori penetranti e nauseabondi, poiché i ditteri sono attratti dalle sostanze in decomposizione. Moltissimi fiori hanno colori e profumi per noi impercettibili ma vivacissimi ai raffinati sensi degli insetti. Altri, infine, apparentemente poco affascinanti, si raggruppano in seno ad ampi cespugli irresistibilmente rigogliosi, esasperando così il proprio fascino. Insomma, tutte le arti femminili sembrano magistralmente espresse nel teatro floreale, che sfuma dalla pudica castità della margherita, alla sfacciata oscenità dell’orchidea.
A mio parere, i fiori più maliziosi sono le orchidee – o ofridi - un esempio straordinario d’esuberanza erotica in mezzo a tanto romantico pudore. Questi fiori, sgargianti e tenui, involuti e carnosi, hanno un’organizzazione talmente complessa da essere rimasti a lungo un mistero. Le orchidee sono fortemente selettive e, a differenza di quanto la loro disinvoltura potrebbe suggerire, non si prostituiscono facilmente. Infatti, ammettono una sola specie d’insetti impollinatori e molte di loro hanno escogitato astuti stratagemmi per attirare i copulatori prediletti, escludendo tutti gli altri. Ad esempio, le ofridi del mediterraneo si travestono da insetti: ci sono ofridi a forma di mosca, di ape, di ragno e di calabrone, per attirare l’attenzione degli animaletti che esse imitano. La bellissima ofride calabrone modella il labello del suo fiore di un colore nero intenso e lanuginoso, che riproduce esattamente il corpo del calabrone maschio. In più, per completare il travestimento senza destare sospetti, distilla un odore afrodisiaco identico a quello che emana la femmina di questa specie d’insetto. In questo modo, il calabrone maschio, convinto di conquistare la virtù di una sua simile, s’affaccenda forsennatamente ad accoppiarsi con lei, o meglio, con l’illusione di lei, caricandosi del polline che trasporterà poi altrove adempiendo alla sua vitale missione. L’ironia vuole che quest’allucinata copulazione produca una vera fecondazione, anche se a riprodursi non sarà il famelico insetto, bensì l’astuto fiore, in un inconsapevole scambio di piacere.
Mi piace pensare che questo corteggiamento amoroso del calabrone attorno alla bella orchidea somigli un po’ a quello tra l’uomo e la donna. Ci potrà, così, essere un calabrone più spavaldo e audace, e un altro più timido e romantico. Mentre il primo sfoggerà d’impeto il suo possente pungiglione, l’altro ricorrerà alla sua vena poetica che immagino, più o meno, così:

Oh petalo in fiore
oh fiore di petalo
lascia ch’io giochi col tuo calice,
che danzi sulla tua bocca
circondata di spine
e ti baci senza timore
come un astuto
ladro d’amore

Oh fiore di petalo
oh petalo in fiore
ubriacami col tuo profumo
stringimi tra i filamenti
della tua corolla
e offrimi il miele
dell’amante docile  
e infedele

In cambio io sono qui
piccolo insetto timoroso
a  filare bozzoli
di  umana poesia
per dar coraggio
all’ansimante pungiglione
di un umile poeta
calabrone.

Quando il calabrone dal possente pungiglione avrà consumato il focoso amplesso, il suo rivale dall’estro poetico sarà ancora alle prese con eccitanti preliminari.
A questo punto, non resta che l’umana curiosità di sapere quale delle due astute e infedeli orchidee sarà, alla fine, più appagata.