martedì 30 ottobre 2012

Una Mente non mente



Finche sarà la mia mente a calamitarti, potrò sentirmi unica ai tuoi occhi, perché per quanto ce ne siano di molto migliori in circolazione, infilate in collant di seta e vertiginosi tacchi a spillo, ognuna è unica e io vado piuttosto fiera della mia.
Un corpo e un viso possono essere sostituibili, intercambiabili, sovrapponibili, usati e dimenticati.
Una mente no. Una mente non mente.

domenica 28 ottobre 2012

La lingua dell'anima


Dove comincia l'atto sessuale tra due innamorati? 
Per alcuni non comincia mai, perchè anche incastrati l'uno nelle tremule carni dell'altra rimangono due frigidi estranei. Per altri, invece, basta uno sguardo lascivo per accendere animaleschi rivoli di fuoco. E' un linguaggio muto e raffinato quello che infiamma le viscere dei sensi. Ci si dovrebbe impadronire del corpo amato come di una lingua straniera: c'è chi balbetterà sempre, forse, e chi è nato per essere poliglotta. 
In ogni caso, il corpo amato resterà sempre un continente oscuro e inespugnabile se non sarà penetrato dalla lingua dell'anima. 

lunedì 22 ottobre 2012

Una qualunque



A volte nella vita,
diventare migliori vuol dire diventare una qualunque.
Almeno una volta nella vita,
vorrei diventare una qualunque.

venerdì 19 ottobre 2012

Il mondo è un libro


"Il mondo è un bel libro ma serve a poco a chi non sa leggere", ammoniva Carlo Goldoni. 
Purtroppo, aggiungerei io, non basta nemmeno saper leggere per capire il mondo.

giovedì 18 ottobre 2012

Change partners


... e mentre lui canta 
"change partners"
a me mancan le parole per dire che 
mi manca.

Convalescenza


Come il corpo, anche l'anima quando si ammala ha una sua convalescenza.
Ma mentre il corpo, per guarire ha bisogno di mare, l'anima ha bisogno di amore.

mercoledì 17 ottobre 2012

L'onda



Quando senti che l’onda ruggisce e s’avvicina, è inutile osteggiarla. Lascia che venga, lascia che sia e che ti porti via. Tanto ormai lo sai, quando bussa vince sempre lei.
Dura un minuto, un giorno, una vita, non fa differenza. In quel tempo che trascorre dall’inondazione alla probabile emersione, sei talmente soffocata dall’abisso che c’è in te da perdere ogni confine temporale. Non spaziale, però. Perché hai bisogno di affondare le unghie nel cuscino, di sprofondare la testa sotto le coperte, di annegare lo sguardo sul soffitto, di imbavagliare le labbra contro il fazzoletto stretto dentro un pugno vuoto. Quando l’onda t’ha preso, sei talmente aderente a te stessa che non riesci nemmeno a respirare. I polmoni son solo due lembi di plastica risucchiati l’uno contro l’altro, flaccidi e inermi, due ridicoli fardelli sottovuoto. E mentre annaspi in cerca d’inutile ossigeno, rotoli e rotoli sempre più giù rimescolata nel marasma di quella schiuma densa fatta di un passato che non ti molla mai. Sensi di colpa, rimorsi, amarezze, fantasmi, maschere, volti che hai amato, che ancora ami e che sempre amerai ti perseguitano e ti confondono danzando come folletti dentro i tuoi occhi già colmi di lacrime. Un nodo alla gola stringe sempre più forte e ghigliottina anche quel flebile filo che amorevolmente ti cuce alla vita. L’onda che ti ha preso s’insinua subdola dentro lo stomaco e si riversa nelle viscere con un soffocato gorgoglio che sa d’inumano. E’ una strana sensazione sentire di affogare dal di dentro, è come autodigerirsi e autoespellersi in un sol boccone.
Ma quando cominci a piangere, e continui a piangere senza l’inutile ritegno che l’orgoglio chiederebbe, quando ti abbandoni molle a questa forza liquida misteriosamente tenace sgorgata da chissà dove, allora poco a poco sentirai che quell’onda che è dentro di te tracimerà, sconfinerà oltre i tuoi occhi lucidi e oltre la tua mente opaca. Piano piano anche i polmoni si dilateranno e non somiglieranno più a lembi stravolti di plastica grigia ma sii animeranno come meduse trasparenti, fluttuanti in un fluido vitale consistente e palpabile. 
Ecco che, piano piano, quell’attimo, quel giorno e quella vita che pareva annaspare inesorabilmente alla deriva ritroverà un pallido respiro sempre più lungo, sempre più profondo. L’onda lascerà spazio a un piccolo lembo di terra su cui cominciare a seminare nuovi passi, nuovi brandelli di sogni e di speranze, dove il passato germinerà non più come un velenoso carnefice ma come un mite consolatore, arginando l'acqua per consolidare un presente che ha bisogno solo di te per inventarsi un futuro.
E allora, quando senti che l’onda ruggisce e s’avvicina, lascia che sia. Tanto sai che vince sempre lei ma sai anche che prima o poi se ne va sempre via. 

Il mantello


E quando anche il tempo meteorologico sembra infierire sul clima emotivo già cupo, non resta che avvolgersi dentro il caldo mantello dei ricordi più teneri e delle speranze più improbabili. 
Così, si diventa magicamente inviolabili. E beatamente invisibili agli occhi degli altri, si sprofonda silenziosamente nell’ombra di se stessi.

martedì 16 ottobre 2012

Orfana



Quando si è piccoli si gioca anche a morire.
O a fare morire.
“Se muoiono i miei genitori – si chiede la bambina – come potrò sopravvivere, chi mi adotterà?”
“Nessuno – risponde la donna che c’è in lei – siamo tutti orfani, non vedi?”
“Vuoi dire che siamo tutti bambini?” Insiste la piccola guardandosi un po' in giro.
“No. Vuol dire che siamo tutti soli. Dai, dammi la mano, così ci consoliamo.” 

Il valore delle parole



E’ vero, le parole sono gratis ma hanno sempre un valore per chi scrive. Non sempre per chi le riceve.
Un valore che nasce dal costo emotivo di queste manciate di lettere nere messe in fila su un candido scenario al ritmo di un confuso batticuore.
Le parole si offrono, si prendono, si copiano, si scambiano, si prestano, si regalano, si dedicano o si estorcono. E quando son sputate fuori dalla febbre di un sentimento che tracima, finiscono per prostituirsi e appartenere a tutti, intiepidendosi e svuotandosi di quel calore verginale da cui son nate.
Ma quando leggete, o voi che state lì fuori, badate bene che talvolta il costo emotivo di quelle lettere sfuse che rimbalzano senza un apparente scopo e bussano a un freddo schermo senza volto, può essere altissimo, doloroso, sofferto e persino sanguinoso.
Non tutti quelli che scrivono cercano l’originalità, non tutti inseguono l’anonimo applauso corale attraverso la battuta, l’enfasi o la rima. Magari, scrivono solo per svuotarsi, per via quel maledetto scroscio d’energia emotiva che fa la differenza e che altri manifesterebbero nella pittura, nella musica, nello sport, nel sesso, nel lavoro, nell'alcol, nella droga, nell’ozio o nell’oblio.
Ci sarà sempre qualcuno, in mezzo al mucchio di scribacchini ebbri di emozioni, che scrive solo per sognare o per dimenticare, con la speranza di un illusorio sfogo, di un respiro, di una carezza, di un sorso di consolazione, perché un'antica lacrima venga finalmente asciugata all’ombra di un tenero sorriso.
Il tempo di una frase, di una pagina, di un racconto o, se si è un po’ bravi e poco pigri, di un romanzo, quanto basta per sciogliere il bavaglio del cuore con rivoli di libere parole. Parole gratis, sì, ma proprio per questo, forse, con un immenso valore.
Fine. 

lunedì 15 ottobre 2012

Incomunicabilità


Non c'è peggior sordo di un cieco.
Eppure, 
amerò sempre quegli occhi 
che non hanno voluto ascoltare.

I saggi assaggi di Montaigne



Se Montaigne, geniale filosofo e appassionato scrittore francese del Cinquecento, fosse in vita oggi, sarebbe sicuramente un perfetto “supertaster”.
Apparterrebbe, cioè, a quel venticinque percento di popolazione in grado di percepire odori, aromi e sapori più intensamente della media, distinguendoli in sfumature inafferrabili ai più. Di conseguenza, sarebbe conteso, ammirato e forse anche temuto da chi produce, commercia e consuma olio, vino e prelibatezze affini, come gli analisti sensoriali possono ben immaginare.
Non intendo limitare la grandezza di Montaigne a questa virtù istintuale, perché il suo fermento intellettuale spazia ovunque e lambisce sia la concretezza fisica e scientifica, sia la profondità filosofica e psicologica. Tuttavia, vorrei soffermarmi su questo razionalismo sensualista, perché è quello che guida il filosofo durante tutta la sua esistenza, un’esistenza sempre golosa e mai sazia di avventure e conoscenza.
Montaigne ama la vita, in tutti i sensi e con tutti i sensi. Mangia spesso con ingordigia, si morde la lingua dal piacere, adora il buon vino, odia essere interrotto mentre è in bagno, riconosce il profumo di violette nella sua urina, apprezza l’odore neutro della sua pelle e spera che la morte lo sorprenda mentre sarà intento a piantare degli odorosi cavoli nel suo orto. Nelle sue eccentricità, una cosa è per lui certa: la conoscenza di sé, che passa innanzitutto attraverso i sensi, accresce la consapevolezza dell’altro e l’apprezzamento del diverso da sé.
Durante i suoi continui viaggi, Montaigne annota e spesso detta al suo fedele servitore, ogni minimo dettaglio circa le esperienze vissute a contatto con le persone, gli animali e i cibi. Tutto è importante per lui e aristotelicamente sostiene che nulla è inutile in natura. Lo ribadisce spesso nei “Saggi”, dove emerge con evidenza quanto amasse mangiare, bere, annusare e assaggiare, non con l’arida dissolutezza dell’ingordo ma con la fine sensibilità di colui che vuole imparare. E nonostante i seri problemi renali, probabilmente ereditati dal padre, che gli procurano spesso feroci sofferenze, Montaigne non rinuncia mai ai piaceri della vita, compresi appunto quelli della tavola.
Non a caso, il filosofo inventa l’espressione “science de gueule”, scienza della gola, proprio negli anni in cui la cucina francese sboccia verso un rigoglioso e promettente fiorire. In quest’epoca, infatti, la ricerca della perfezione nell’arte culinaria è d’obbligo, tanto che Montaigne racconta di un famoso chef, Vatel, che alla vigilia di un banchetto reale si suicida, essendosi accorto di aver clamorosamente terminato il pesce ordinatogli dal suo sovrano.
E’ in questo contesto storico pregno di sperimentazioni gastronomiche, che Montaigne arricchisce il proprio bagaglio culturale aprendosi a esotici e speziati orizzonti, grazie al senso del gusto ma anche al senso dell’olfatto. Dedica un intero saggio a questo senso primordiale eppur prezioso, intitolato “Degli odori”, in cui precisa: “mi piace molto sentire i buoni odori e odio straordinariamente i cattivi, che sento da lontano più di ogni altro.” E’ lui stesso a definire il suo naso “straordinario” per la sua non comune sensibilità, una sensibilità che non distingue tra anima e corpo perché, come Montaigne afferma, la persona umana è un’unità in cui convivono armoniosamente i piaceri sensuali e quelli spirituali. Affidarsi al proprio naso è, dunque, per Montaigne il modo più preciso per cercare di afferrare l’essenza di una persona, così come la qualità di un cibo o di una bevanda. L’odore rivela molto più di quel che l’occhio può vedere, in ogni situazione. Così, Montaigne si diverte a descrivere con minuzia la dolcezza dell’alito dei bambini sani; racconta come l’odore dei guanti gli resti addosso per tutto il giorno; critica ripetutamente la bellezza di città come Venezia e Parigi per via dell’odore paludoso dell’aria; mentre esalta le strade austriache per i fumi aromatici emanati dalle stufe delle case.
Ma la sensibilità olfattiva e gustativa di Montaigne spicca soprattutto nel suo “Viaggio in Italia”, un saggio che viene tuttora considerato un vera e propria guida ai vini dell’epoca. Il filosofo fiuta, assaggia, beve ed espettora con acuta attenzione i vini che gli vengono offerti durante gli spostamenti in Europa, annotando con minuzia ogni sensazione e senza risparmiare severe critiche. A Plombières il vino non è per niente buono, così come non lo è il pane; a Schongau ci si deve accontentare di vino novello da consumarsi appena imbottigliato; ad Augusta, i vini buoni sono per lo più bianchi, come a Vipiteno, perché i rossi deludono; in Germania i vini vengono aromatizzati con varie erbe o spezie, tra cui la salvia, di cui i germanici son ghiotti; a Basilea sono tutti troppo delicati, per non dire blandamente annacquati. Ma è in Italia, e specialmente a Lucca, che Montaigne assaggia un “vino bonissimo”, regalatogli da un ministro dei frati francescani con dell’ottimo marzapane che, insieme, allietano una delle sue tante soste ai bagni termali. Anche quando è costretto a curare i dolori renali, infatti, Montaigne non rinuncia alle cose buone, consolandosi così dei propri acciacchi e sperimentando su di sé possibili cure alternative, certamente più piacevoli di clisteri e salassi.
Qualche storico sostiene che il rapporto viscerale tra il filosofo e il vino dipenda dal fatto che quest’ultimo entra nel sangue, scaldando i pensieri e sciogliendo la scrittura. A me, invece, piace pensare che l’amore di Montaigne per il vino nasca prima, cioè dalla terra e dalle vigne, che lui stesso quando può cura con passione. Il filosofo è, infatti, anche un esperto e ricco vigneron e dalla finestra del suo studio ama osservare il gelo pizzicare le viti intirizzite, la potatura e la legatura dei tralicci d’inverno, il sole estivo che riscalda i grappoli e l’allegria della vendemmia settembrina. “Quando gelano le vigne del mio villaggio, il mio prete argomenta che è l’ira di Dio sulla razza umana”, scrive. Ecco, forse solo dopo questo profondo significato simbolicamente legato alla vita e alla giovinezza arriva per Montaigne il piacere più strettamente legato al gusto, così pregnante nei suoi scritti.
Alcuni sostengono che il titolo stesso dei suoi manoscritti “Essais” non vada tradotto come “Saggi” bensì come “Assaggi”. E’ possibile, visto che l’origine arcaica del termine “assai” è presumibilmente legata al cibo e al vino. Letto in questa chiave, l’intero manoscritto di Montaigne (il cui titolo originale era “Essais de Messire Michel de Montaigne”) sarebbe coerente con la premessa che il filosofo dedica al lettore, in cui presenta i suoi racconti come un mezzo per alimentare il proprio ricordo presso amici e parenti. Il titolo potrebbe dunque essere tradotto come “Assaggi di Michel de Montaigne”.
Tuttavia Montaigne estende le sue riflessioni sensoriali oltre al vino e al cibo e arriva a toccare il corpo umano. Ed è qui che va ricondotta la sua saggezza. Attraverso le impressioni olfattive, Montaigne arriva a leggere dentro le persone, intuendo temperamento, abitudini e umori. Per esempio, disapprova l’abuso di profumi artificiali, perché mascherano la verità e sono sintomo di mancanza di pulizia, quindi chi profuma troppo, in realtà, puzza. I suoi folti baffi, oltretutto, non lo tradiscono mai e gli sono complici nell’imprimere sensazioni gustative e olfattive essenziali, soprattutto in amore. Scrive, infatti, che “gli appassionati baci della gioventù, saporosi, ghiotti e appiccicaticci, un tempo vi s’incollavano e vi restavano per molte ore.” Inoltre, Montaigne sottolinea come “il più squisito profumo di donna è non avere alcun odore, così come il miglior odore delle sue azioni è che esse siano impercettibili e tacite.” Se da un punto di vista ideale, la donna dev’essere inodore, Montaigne apprezza certi aromi delicati, come quelli che usavano le ragazze di Scizia. Esse, infatti, “dopo essersi lavate, spargevano e ricoprivano tutto il corpo con una certa droga odorosa che nasce nel loro paese; e al momento di avvicinare gli uomini, la toglievano per essere lisce e profumate.”
Con l’età, forse, il sapore tumido dei baci e le sensuali fragranze femminili cambiano per Montaigne ma altri effluvi verranno da lui assorbiti e studiati con altrettanta meticolosa passione. Per esempio, egli nota come l’utilizzo dell’incenso durante i riti religiosi sia fondamentale per purificare i sensi e indurre alla contemplazione. Allo stesso modo, rimpiange di non possedere l’arte di aromatizzare i cibi di cui certi cuochi son mirabilmente dotati.
Insomma, “annusare il più possibile” sempre e ovunque, per esplorare tutto ciò che appartiene alla vita: questa sembra essere la missione umanista sottesa alla saggezza di Montaigne, il quale fa del proprio naso e del proprio palato un unico prezioso strumento di conoscenza e di profondo godimento.
Il filosofo assaggerà la vita fino all’ultimo respiro quando, ironia della sorte, un ascesso alla lingua gli impedirà di parlare per tre sofferti giorni. “Non mi fa piacere essere malato ma se lo sono, voglio saperlo, voglio sentirlo” scrive, mentre, disteso nel letto della sua casa, gli amici più cari gli rendono le ultime commosse visite. Si dice che abbia affrontato la morte con una serenità naturale, non piantando cavoli come avrebbe desiderato, ma scrivendo in conclusione dei “Saggi” che era semplicemente giunto il momento di raccogliere le sue cose e far fagotto.
E’ il 13 settembre del 1592, il giorno in cui Montaigne deve aver annusato l’unico profumo a lui ancora sconosciuto, quello della morte, che come un ultimo bacio s’è posato morbidamente sui suoi baffi stanchi, senza concedergli il tempo di ricambiare, né di poterlo raccontare.

domenica 14 ottobre 2012

Solo due parole



“Ti amo” è la frase più abusata al mondo, spesso scambiata tra persone che appena si conoscono. E’ un passe-partout che fluidifica il bisogno di contatto affettivo o pseudo affettivo quotidiano anche a distanza, ponte verbale di una realtà che diventa virtualità, e viceversa.
Ci sono ti amo istintuali, pronunciati sotto l’effetto di un’emozione, di una febbrile vibrazione la cui durata non sopravvive oltre lo spasmo d’un fugace orgasmo; ti amo gonfi come palloni, talmente gonfi da non rivolgersi a nessuno in particolare ma a un anonimo amante che forse, dopo tutto, altro non è che il nostro tronfio sé; ti amo aggressivi lanciati come un sacco di spazzatura verso chi magari non ha la stessa sfrontatezza di ricambiare questo dono verbale senza prima rifletterci un po’ su; ti amo placebo che fanno tanto bene al narcisismo cieco di chi ascolta ma tanto male a chi li pronuncia che resta inevitabilmente solo nel suo sterile involucro affettivo; ti amo supplichevoli, petulanti richieste d’aiuto, di prendersi cura di sè come si potrebbe fare con un figlio ma come non si deve assolutamente fare con un amante; ti amo vuoti, talmente vuoti che rimbalzano contro il proprio desiderio di provare un sentimento, un sentimento che nemmeno si conosce, perché ci vuole l’altro per costruirlo davvero. 
E in mezzo a quest’ammucchiata affabulata, confusa e delirante, ci son ti amo focosi, timidi, urlati, balbettati, graffianti, carezzevoli, incoraggianti, frustranti, sinceri e beffardi … Da qualche recondito recesso dell’anima, tuttavia, schizzano fuori senza possibilità d’incatenarli e una volta pronunciati ecco che, come tante creature selvagge restituite alla libertà, esistono. Lettere incise nella mente che scavano nel cuore, multiformi e cangevoli, pericolose e consolatorie.
E infine c’è un ti amo consapevole, ponderato, condiviso e corrisposto. Talmente reale che può essere appena sussurrato e persino taciuto.

Una cosa è certa: un Ti amo così fiero e allo stesso tempo umile spazza via tutti gli altri, precedenti e futuri, perché conquistarlo costa fatica e il suo valore non ha prezzo. Un Ti amo così non può essere improvvisato, va coltivato perché racchiude in sé l’accettazione dell’altro, non il bisogno che dell’altro si ha. E’ una conquista che sa di libertà perché non aspira alla perfezione ma, al contrario, abbraccia tutti i difetti della realtà. E il segreto per trasformare due anonime parole in un autentico messaggio d’amore è innanzitutto riconoscere d’essere in due, proprio come queste parole. Due creature diverse, incomplete e imperfette e non una specchio dell’altra, due creature che tuttavia parlano lo stesso linguaggio fatalmente incomprensibile agli altri. Un linguaggio tessuto di promesse in grado di sciogliere dubbi, timori e incertezze, svuotato di tutti quei fantasmi capaci di animare miraggi e di seminare reciproche, insanabili amarezze. 

venerdì 12 ottobre 2012

Il gioco dell'ostrica



Il piacere sessuale è per l’anima ciò che la buona tavola è per lo stomaco.
Quest’associazione gustativa è il leitmotiv sotteso al pensiero e, soprattutto, allo stile di vita dei libertini del XVIII secolo che, in fatto di piaceri, non si facevano mancare nulla. Sesso e cibo: tutto doveva passare attraverso la bocca per soddisfare il corpo e lo spirito. Se possibile prima uno e poi l’altro, altrimenti e ben volentieri, contemporaneamente.
Primo tra tutti i famosi libertini dell’epoca è, naturalmente, Gian Giacomo Casanova. Veneziano, figlio di artisti, cresciuto con un innato istinto all’amore fisico, il giovane fa ben presto delle proprie esuberanti virtù un’arte. A tavola e a letto.
“Coltivare i piaceri dei sensi è stato in tutta la mia vita il mio primo impegno. Sentendomi nato per il sesso diverso dal mio, l’ho sempre amato, e me ne sono fatto amare quanto ho potuto. Ho anche amato con trasporto la buona tavola …” scrive Casanova nella prefazione del celebre “Histoire de ma vie.
Non disdegna alcun cibo, il baldanzoso rubacuori, così come non esita ad accompagnare i più squisiti piaceri del palato ai più viscerali amplessi carnali. E le sue amanti sembrano essere puntualmente deliziate, nonché appagate, da tale sposalizio dei sensi, profferto sempre con generosa abbondanza.
Alcune delle vicende più colorite, divenute leggendarie nella letteratura del libertinaggio settecentesco, riguarda il rapporto di Casanova con un particolare cibo, simbolicamente ineguagliabile nel linguaggio amoroso: l’ostrica. Bisogna premettere che già nel secolo precedente l’allusivo mollusco era considerato un potente afrodisiaco, in grado di surriscaldare l’ardore di Venere e inturgidire il vigore di Priapo. Ma è soprattutto nel Settecento che l’ostrica diventa il preludio gastronomico per eccellenza, il pretesto esplicito per bere ottimo vino, champagne, liquori e ben altro. Non è raro che durante gli orgiastici banchetti, gli invitati riescano a inghiottire anche centinaia di ostriche a malapena masticate, incoraggiati dall’effervescenza del vino profusamente offerto. E questo spesso non è che il ghiotto preambolo al pranzo o alla cena veri e propri.
In effetti, il mollusco pare rappresentare l’esatto opposto delle carni, sia nella concretezza sia nel simbolismo. Carni che puntualmente abbondano con ostentata opulenza sulle ricche tavole settecentesche. La leggerezza dell’ostrica compensa la pesantezza dei manzi; la trasparenza risplende sull’opacità dei maiali; l’effluvio d’oceano inonda i sentori di terra dei polli.
Leggerezza e delicatezza conciliano, dunque, anche gli ardori di Casanova predisponendo i sensi alla complicità più lasciva. Si narra, infatti, che l’audace libertino amasse ordinare un piatto di ostriche prima di andare a dormire, indipendentemente dai bagordi appena consumati. Lo fa ad Amsterdam, per esempio, per corroborarsi dopo una faticosa corsa in slitta sull’Amstel ghiacciato; confessa di averne mangiate trecento insieme a otto amici, una sera a Milano, ricordata non solo per l’abbuffata di conchiglie ma anche per i fiumi di ottimo champagne; e lo fa a Roma, in compagnia di due dame, Emilia e Armellina, gentilmente corrotte a ogni genere di eccesso.
L’ostrica, per Casanova, è come il bacio. La fusione del mollusco vivo con la bocca trasforma il boccone in una sorta di ostia profana. Diventa persino deliziosamente blasfema se si pensa, per esempio, alla relazione carnale che il giovane intreccia nel 1754 con un’enigmatica religiosa sedotta con voluttuose ostriche e poi posseduta, con suo compiaciuto consenso, in una petite maison veneziana. “Ci divertimmo – scrive il Casanova – a mangiare le ostriche scambiandole quando già le avevamo in bocca. Lei mi presentava sulla sua lingua la sua nello stesso istante in cui io le imboccavo la mia. Non esiste gioco più lascivo, più voluttuoso tra due innamorati. E’ anche comico e il comico non guasta poiché le risa son fatte soltanto per gli esseri felici.” A incorniciare la scena già di per sé conturbante e ben dipinta dalle parole dello stesso protagonista, va aggiunto un dettaglio ancor più scabroso. L’erotismo ostreario tra i due è spiato da una stanza attigua dall’ambasciatore di Francia, Pierre de Bernis, amante ufficiale della religiosa, la quale deve avere un’imbarazzante confusione tra cosa sia l’amore per Dio e l’amore per l’uomo.
In seguito, e per molti anni, Casanova ripete spesso questo piacevole rituale erotico-gastronomico che qualcuno ha battezzato “il gioco dell’ostrica.” Un gioco che il Pigmalione oramai navigato non utilizza più come apoteosi di una partita di piaceri tra due amanti già ardenti, bensì come strumento per sedurre e corrompere progressivamente anche le dame più caste e recalcitranti.
Memorabile è una cena, nel 1770, in una locanda di Roma, dove Casanova è intenzionato a sciogliere la timidezza di quelle due giovani amiche, Armellina ed Emilia, con delle costose ostriche. Cinquanta paoli per cento ostriche, questo è il prezzo che l’ospite sottolinea con calcolato orgoglio alle invitate, solleticando ancor di più il gusto peccaminoso del loro scontato consenso. Non solo, insieme allo champagne Casanova ordina allo sguattero altrettante ostriche da consumare dopo cena, come dessert, raccomandandogli di non gettare la deliziosa acqua in cui esse nuotano.
A questo punto, la funzione dei molluschi diventa essenzialmente ludica e straordinariamente carica di un raffinato erotismo che i tre consumano con reciproco diletto. Ne godono a tal punto da riderne insieme, abbandonati nel languido abbraccio del piacere. Addio timidezza, dunque, come testimoniano le memorie di Casanova: “Convengo che era difficile il gioco dell’ostrica. Ma mi sono impegnato a insegnar loro come fare per conservare l’ostrica con l’acqua nella bocca, innalzando in fondo ad essa una barriera con la lingua per impedirle di scivolare nell’esofago. Tenuto a dare l’esempio, ho loro insegnato a introdurre come me l’ostrica e l’acqua nella bocca dell’altro, introducendo al tempo stesso in tutta la sua lunghezza la lingua … ridendo, poi, convenivano con me che nulla poteva essere più innocente.”
Il “gioco dell’ostrica” ha talmente successo che degenera, spesso e volentieri, con scivolamenti apparentemente sbadati dei molluschi nei décolleté delle dame e persino più in basso, laggiù dove il velato mistero rende ancor più eccitante la caccia e gaudente la cattura.
Licenziando le sospirate estasi dei libertini del Settecento, mi rammarico pensando che oggi non siano più diffusi certi innocenti giochi d’amorosi sensi. Del resto, mi pare inevitabile rassegnarsi e adeguarsi ai tempi che cambiano: pochi privilegiati possono permettersi ormai il consumo frequente e cospicuo di ostriche d’eccellente qualità. Tutt’al più nove o dodici, se proprio si vuole strafare accentuando l’enfasi di una cena intima in compagnia del proprio amore. Per non parlare poi dello champagne, oro liquido sempre più prezioso e ricercato.
Tuttavia, alla fine mi domando se in realtà non sia forse un altro l’afrodisiaco assente nei giochi erotici degli amanti di oggi, a tavola così come a letto. Ovvero la fantasia. O forse, pensandoci ancor meglio, quel che spesso manca è un autentico Casanova: un seduttore intrigante, elegante, intelligente e divertente, naturalmente fedele, innamorato ed esclusivo per ogni dama all’altezza delle sue prodezze, naturalmente ricambiate con reciproco piacere.
Con o senza ostriche, un afrodisiaco così non avrebbe certo concorrenti! 

giovedì 11 ottobre 2012

Amicizia



La parola "amicizia" nella virtualità

è un'offesa all'Amicizia nella realtà.

Concepimenti



Fare un libro è come fare un figlio.
La progettazione è un’eccitazione.
Il concepimento è un piacere.
La gestazione è una fatica.
Il parto è una liberazione.
Lo svezzamento è una soddisfazione.
La crescita è un orgoglio.
Infine, una volta al mondo, un libro così come un figlio, non appartiene più a chi l’ha creato ma acquista vita propria. Il genitore può solo sperare di essere un buon lettore.

lunedì 8 ottobre 2012

Insieme


Leggere le tue parole è come carezzare le impronte dei tuoi piedi nudi sulla sabbia. 
Dopo tanto camminare insieme, non so più distinguere le tue dalle mie.

sabato 6 ottobre 2012

Un Amore necessario



Quando Jean-Paul Sartre e Simone di Beauvoir si conoscono, sono appena ventenni ma il loro primo folgorante incontro segna la gestazione di un eterno sodalizio, mentale e sentimentale.
I due non sono solo un uomo e una donna qualunque che intrecciano le proprie agitate esistenze. Sono due fervide menti, febbrili e ribelli, destinate a un’osmosi che scolpirà definitivamente il pensiero intellettuale degli anni a venire.
Lei, ragazza solitaria, asociale e antiborghese, sente precocemente di possedere un cervello maschile dentro un corpo di donna. “M’immersi nella letteratura- scrive in una delle sue minuziose autobiografie – come in altri tempi nella preghiera.” Decide presto e senza indugio di assecondare la sua contraddittoria natura d’intellettuale senza farsi intimidire dal sapere maschile, subordinando al lavoro di scrittrice l’aspetto squisitamente femminile e i fatui vezzi del gentil sesso. Lui, bellicoso, ruvido e diffidente, si sente sin da piccolo inadeguato ai suoi simili, anche per via dell’aspetto fisico piuttosto ingrato che lo vuole strabico, tarchiato e sgraziato come un rospo. Questo “insipido sboccio in perpetua attesa di abolizione, cherubino avvizzito, miserello che non interessa a nessuno” - come lui stesso si definisce - combatte il feroce desiderio di sparire nel Nulla con l’insaziabile fame di cultura, trovando nella letteratura la sua religione e la tempra del suo carattere.
Sartre e de Beauvoir sembrano, dunque, due gemme germogliate dalle stesse radici e destinate a fondersi in una coppia filosofica che finirà per trascendere le singole identità, trasformando le inquietudini di ognuno in uno straordinario sodalizio esistenziale. I due si sono istintivamente attratti, come due energie telluriche calamitate da un invisibile collante chimico, sentendo di appartenere irrimediabilmente l’uno all’altra. Eppure, si sono dati del lei per oltre cinquant’anni, non hanno mai vissuto insieme definitivamente, non si sono mai sposati né hanno avuto figli ed entrambi si sono concessi frequenti relazioni amorose, contingenti al loro stesso amore. Un amore che li vedrà indissolubilmente legati in un rapporto senti-mentale incorruttibile, fino all’epilogo delle loro stesse vite.
“Quello che c’è tra noi due – ha scritto Sartre riferendosi a lei – è un amore necessario. La cosa meravigliosa di Simone è che ha l’intelligenza di un uomo e la sensibilità di una donna. In lei trovo tutto quello di cui posso avere bisogno.”
“Sartre rispondeva esattamente ai desideri dei miei quindici anni – racconta da parte sua Simone de Beauvoir – Era il mio doppio, nel quale ritrovavo tutte le mie manie portate all’incandescenza. Con lui avrei potuto condividere tutto.
Il loro è stato un Amore necessario, dunque. Necessario, nel senso di totale. A unire la coppia filosofica è stata una complicità mentale e spirituale. Hanno fatto l’amore innanzitutto con la mente, un amore traboccante di passione e di amplessi che il corpo da solo non potrebbe donare. La compenetrazione tra Sartre e de Beauvoir è stata talmente profonda da resistere a ogni prevaricazione esterna, perché quando si ama da dentro, ogni passione contingente scivola via come olio sull’acqua.
Per questo i due amanti intellettuali possono permettersi di concedersi, spesso e volentieri, avventure occasionali in maniera trasparente, raccontandosele con eccitata partecipazione, sbeffeggiando ogni inutile codice morale e perbenista. Perché loro sono ‘oltre’. A volte Sartre tesse morbose relazioni proprio con le stesse donne giovani e belle sgusciate fuori dalle braccia di de Beauvoir, assolutamente disinibita di fronte alla promiscuità dei sessi, di cui invocava la fratellanza. Si alimenta così, negli anni, un trasgressivo scambio di amanti che giostrano in una specie di famiglia allargata, di cui i due intellettuali sono il motore.
Nonostante le tribolate passioni contingenti, comunque, l’amore necessario tra Sarte e de Beauvoir è incorruttibile, viscerale e immortale, tanto che la coppia resterà unita a dispetto dell’ineluttabile usura del tempo.
"Se muori, mi sdraierò accanto al tuo corpo e rimarrò lì ad attendere la tua fine, senza mangiare né bere, tu marcirai tra le mie braccia ed io amerò te, già carogna: perché non si ama niente se non si ama tutto." Così scrive Sartre alla sua compagna, la quale con parole squisitamente tenere risponde: “E’ spaventoso non poter consolare qualcuno dal dolore che gli si dà abbandonandolo; è spaventoso che qualcuno vi abbandoni e non vi dica più nulla.”
Il 15 aprile 1980 all'ospedale di Broussais, Simone de Beauvoir s’infila con un brivido di dolore nel letto di Jean-Paul Sartre, dove oramai il suo corpo ancora caldo giace esanime. Sarà, questa, la loro ultima notte insieme, come a suggellare la sintesi estrema del loro eterno, necessario amore.
"La sua morte ci separa - scriverà con rassegnata commozione lei, ormai privata della sua metà - e la mia morte non ci unirà. E' bello così, che le nostre vite abbiano potuto accordarsi per un così lungo tempo."
I corpi di Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir riposano oggi nel cimitero di Montparnasse, accanto a quelli di Baudelaire. Mentre i loro pensieri continueranno a volteggiare liberi e irreprensibili, uniti per sempre nella memoria della posterità.

Codicillo personale.
Al di là della personale ammirazione che nutro per questi due personaggi, ve ne sono molti altri, di altrettanta levatura filosofica, artistica e letteraria, che hanno immortalato con le parole le proprie storie d’amorosi sensi. Abelardo e Eloisa, Nietzsche e Lou Andreas-Salomé, Hanna Arendt e Heidegger, Scott Fitzgerald e Zelda Zaire, Henry Miller e Anais Nin, solo per citarne alcuni sfogliando a caso le pagine del tempo. 
La letteratura ha, infatti, il potere di rivestire le storie d’amore d’un fascino sensazionale che trasforma ogni realtà vissuta in romanzo da leggere. Forse, nella quotidianità, queste vicende amorose non sono sempre state così affascinanti e anche i leggendari amanti ogni tanto s’annoiavano tra le lenzuola, si arenavano in banalità e si stiracchiavano pigri tra i fumi d’oppio e gli effluvi d’assenzio. In fin dei conti è soprattutto la capacità di saper raccontare le storie che le rende straordinarie e immortali, insieme agli inquieti protagonisti.
Questo per dire che, probabilmente, ogni giorno, in ogni casa, in ogni letto e in ogni epoca storica - compresa la nostra, fatta anche di una virtualità sfuggente ma quanto mai concreta - si avvicendano intrecci amorosi tanto sofferti quanto sublimi destinati a restare privi di testimoni, perché svaniscono senza lasciare impronte nella biblioteca esistenziale dell’universo.
Del resto meglio così, o saremmo sommersi da romanzi tutti speciali, eppure alla fine tutti uguali e per ogni tipo d’amore dovremmo inventare un titolo diverso, proprio come per i libri.
Meglio risparmiare la fantasia per vivere l’amore, anziché scriverlo. Perché, per quanto raccontato in mille versioni, l’amore è multiforme, imprevedibile, cangevole, indefinibile e resterà sempre un mistero. Un mistero necessario.
In poche parole, l’amore è e sarà sempre un delizioso, subdolo mentitore. 

giovedì 4 ottobre 2012

Animali senza coda e animali senza cuore



Tra le tante notizie che scorrono in rete, ne è apparsa una poco fa che mi ha particolarmente addolorato. Si tratta dell’immagine di un povero cane sofferente cui è stata amputata la coda con un colpo d’accetta.
Ora, senza soffermarmi su questa brutalità che ancora oggi viene praticata su molte razze canine, anche se non con la stessa barbarie grazie al cielo, vorrei cercare di spiegare perché la coda non è un semplice optional per i cani ma una parte del corpo fondamentale per una sana vita sociale.
Chiunque abbia un cane sa che lo scodinzolio è una risposta emotiva a uno stimolo. Non tutti sanno, però, che lo scodinzolio cambia a seconda dello stimolo e che, quindi, il modo di muovere la coda esprime il tipo di emozione provata e anticipa la reazione che il cane avrà di fronte allo stimolo. Quando il cane osserva qualcosa o qualcuno che suscita una risposta positiva, cioè di avvicinamento (il padrone o la ciotola della pappa) lo scodinzolio è ampio e scorre da destra a sinistra, con un’evidente maggiore estensione verso destra. Spesso, in alcune razze, la coda giunge persino a lambire il lato destro del corpo, tanto è il vigore con cui viene sventolata. Quando, invece, il cane osserva uno stimolo negativo (una persona non famigliare o un cane dominante con atteggiamento aggressivo) lo scodinzolio esprime una risposta di ritrazione, anziché di avvicinamento, rivelata dal movimento della coda decisamente più accentuato verso sinistra. Rispetto alla prima reazione positiva, in questo caso lo scodinzolio è anche meno ampio e insistente.
Questa asimmetria non è identica in tutte le razze di cani. Facendo un’analogia con l’animale uomo, potremmo dire che somiglia alla preferenza per l’uso della mano destra, visto che il 90% degli individui è destrimane mentre gli altri sono mancini o ambidestri. Lo stesso accade nei cani, per cui lo scodinzolio verso destra di fronte a stimoli positivi e quello verso sinistra di fronte a stimoli negativi copre l’80 % circa degli individui, una percentuale comunque alta.
L’analogia con l’uso della mano suggerisce che la reazione della coda è guidata dal cervello, ovviamente, perché la parte destra del cervello comanda la parte sinistra del corpo e viceversa, tanto negli umani quanto nei cani. E questo ha un’importante implicazione con i sentimenti e le reazioni emotive, visto che l’emisfero destro è quello fondamentalmente emozionale e quello sinistro razionale. In realtà i marchingegni cerebrali son ben più complessi, tuttavia queste poche regole elementari sono sufficienti per dimostrare l’importanza che ha - a livello di comunicazione e non solo di funzionalità - quel banale pezzo di ossa e pelo che ogni tanto scodinzola apparentemente a caso. Quel banale pezzo di corpo che, insieme alle orecchie, noi umani ci ostiniamo ad amputare per rispondere a ideali estetici del tutto non condivisibili e sovvertibili.
Ora, ditemi, quali altri modi avrebbero i cani di comunicare tra loro e con noi se non usando il linguaggio del proprio corpo? Non tutti gli umani sanno guardarli negli occhi e interpretare il loro pensiero, anche se sono sicura che questo sia possibile, in una reciprocità comunicativa sorprendente. E non tutti i cani per indole abbaiano, guaiscono o ululano, ma è certo che tutti muovono le orecchie e scodinzolano. Come potrebbero, dunque, i cani esprimere gioia, paura, diffidenza, sofferenza, gratitudine se vien tolta loro la possibilità di utilizzare la naturale mimica del corpo?
Riguardo per un attimo la fotografia di quella creatura sofferente cui è stata mozzata la coda con un colpo d’accetta. Un moto di rabbia mi ruggisce dentro e ora vorrei poter guardare in faccia anche l’autore di quel barbaro gesto. Mi chiedo chi sia l'animale, lui o il cane. Sento che vorrei punirlo, eppure son convinta che questo povero cane, al contrario di me, sarà sempre capace di perdonarlo.