martedì 11 settembre 2012

Sulle tracce di Henry Morgan



E’ l’ora della siesta. Cullata dall’amaca guardo l’oceano e ascolto il rifrangersi delle onde sul reef che accompagna una carezza di azzurri, verdi e blu fin sulla spiaggia.
Mi trovo a Roatan, a cinquantasei chilometri al largo della costa dell’Honduras, una piccola isola che appartiene all’arcipelago della Bahia, prolungamento naturale della barriera corallina del Belize. Insieme a Utila e Guanaja è la maggiore delle isole della Bahia, la più popolata e anche la più tecnologicamente avanzata, tanto che vanta addirittura qualche strada asfaltata, particolare che quasi stona in tanta selvaggia natura. Tutto attorno altri sessantacinque atolli, tra cui i Cayos Cochinos, coronano l’arcipelago e pare quasi siano lì a proteggere un incanto in gran parte ancora vergine.
Affascinata da tanta bellezza mi rendo conto del perché un pirata della portata di Henry Morgan avesse scelto proprio queste terre come quartier generale delle sue prodezze. L’intraprendente giovane arrivò dal Galles nel 1655 circa come manovale di contratto, ovvero come schiavo bianco ma grazie alle sue intrepide imprese divenne ben presto bucaniere e in seguito  corsaro, fino ad essere nominato Governatore di Giamaica. Insomma, una carriera degna di merito e ancora oggi si parla di lui come il leggendario Re dei Pirati.
Gli abitanti di Roatan, gli islenos, hanno voluto dedicare proprio ai pirati la capitale dell’isola, battezzandola Coxen Hole, da Coxen, altro famoso brigante dei mari, anche se il centro commerciale e vitale resta West End, col suo susseguirsi di negozi di souvenirs,  ristoranti, pulperias, spesso costruiti su palafitte di legno bagnate dalle onde. Pare che i pirati abbiano tenuto qui a lungo le loro basi e ancora oggi si narra di tesori sommersi che il mare tuttora custodisce e che il fato, o meglio la suerte, potrebbe un giorno decidere di restituire a qualche fortunato. L’ultima cassa piena d’oro è stata rinvenuta alla fine degli anni ’50, da allora più nulla ma la leggenda vuole che il più ricco tesoro di Henry Morgan sia ancora nascosto qui e non necessariamente negli abissi.
Mi guardo attorno e penso che fortunatamente siano davvero pochi a conoscere o a credere a questa leggenda, perché quest’isola gode del privilegio di non essere ancora infestata dai turisti (al contrario dei mosquitos purtroppo). Gli stessi islenos vivono pigramente, incuranti di ricchezze da scoprire e forse proprio per questo motivo sempre gentili e sorridenti, nonostante spesso manchi l’acqua potabile o l’energia elettrica, paiono sempre invidiabilmente sereni. Gli abitanti di Roatan discendono dai Garifuna, tribù originaria di Saint Vincent, nata da una mescolanza non sempre pacifica tra neri africani e caribi. Il popolo dei Garifuna nel 1797 viene in parte deportato dagli Inglesi a Roatan e  ancora oggi convivono sull’isola aspetti culturali e linguistici tipici dei Caraibi britannici assieme a quelli più marcatamente ispanici. E’ così che spesso gli islenos comunicano tra loro in una sorta di spanglish assolutamente incomprensibile ai turisti. Anche i tratti somatici rivelano questa dualità e all’esuberanza della pelle nera e di una corporatura forte e atletica si contrappone la dolcezza mulatta e mite tipica della sensualità latina.
A questo mix culturale fa da scenario un panorama naturale altrettanto ricco di contrasti, un concentrato di colori e profumi davvero unico. Eccolo, io penso, questo è il vero tesoro di Roatan. Non oro e preziosi nascosti negli abissi o seppelliti sulle montagne, bensì una natura prepotente, mozzafiato, esuberante come i pirati che ha ospitato. Sulle spiagge si alternano palme da cocco e pini marittimi che affondano le radici fin quasi nel mare, lasciando qua e là respiro a rigogliose piante di papaya. Anche l’interno dell’isola è un groviglio fitto di vegetazione capace di scoraggiare qualsiasi umana penetrazione.
Quel che più mi colpisce rispetto ad altre isole caraibiche è il silenzio che qui domina, o meglio l’assenza dei ritmi musicali, frenetici e sensuali che lascia rispettosamente la parola alla natura. Strani gorgheggi, veri e propri dialoghi, si elevano dalle piante, pappagalli e tucani, gabbiani e avvoltoi si scambiano voci in un tam-tam continuo mentre anatre e pavoni fanno bella mostra di sé fin sulla spiaggia, tra ombrelloni di paglia scomposti dal vento,  per un bagno al tramonto.
Sgranocchiano giorno e notte le guatusas, piccoli simpatici roditori simili al tapiro, che si uniscono così alla sinfonia. A dire il vero spesso capita anche di sentire grida di spavento di qualche gringo impreparato agli assalti delle scimmie, piccole curiose scimmie dispettose, golose e ladre che sorprendono alle spalle, si arrampicano su gambe e braccia, non demordono, anzi spesso mordono, finchè non viene offerto loro qualche cosa di ghiotto. Molto meno invadenti le iguana, lente e silenziose, che osservano immobili quasi pensierose, veri e propri draghi, a ricordare che i dinosauri sono davvero esistiti.
Unica nota dolente nel panorama faunistico di Roatan sono le sunflies, instancabili, impercettibili, insopportabili insetti dalle minuscole ali bianche, le cui punture sono inversamente proporzionali alle loro dimensioni. Non c’è repellente che tenga ma, penso, se la loro presenza può fungere da deterrente ad una rovinosa invasione turistica, allora tutto sommato provo simpatia anche per loro.
Il linguaggio della natura che colma il silenzio dell’isola proviene anche dal mare. Sono i delfini a parlare questa volta, pare ridano e mi piace credere che davvero sia così, che si prendano gioco di quei tipi mascherati con tubi di gomma, occhiali e pinne, tutti intenti a corromperli con qualche sardina per rubare loro una fotografia, una carezza e magari, perché no, un bacio.
E’ così che ripenso a Roatan, ora che sono rientrata nei confini della civiltà. Rivivo i colori dell’oceano e il silenzio delle montagne, il profumo dolce di sigaro e rhum al tramonto, la sabbia docile sotto i piedi e il vento tiepido tra i capelli … rivedo il bacio che il delfino mi ha regalato, le conchiglie di madreperla accarezzate e restituite al blu, le stelle cadenti che la notte mi hanno suggerito desideri proibiti, … ripenso al sorriso e ai volti gentili che hanno stupito i miei occhi e che non scorderò mai …
Cullata dall’amaca, questa volta nel mio giardino, mi vengono in mente le parole di una ballata gallese, lette su una scatola di rhum prima di partire :
“Eri un grand’uomo Henry Morgan, un re senza corona, quando alzavi le tue vele, eccoti ora essere tutt’uno con questa tua meravigliosa terra.” 

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