martedì 4 settembre 2012

La dolce Melba



La popolarità della “dolce Melba” ha da poco compiuto novant’anni. Esattamente nel giugno del 1920, infatti, la cantante lirica australiana, Nellie Melba, fu ascoltata alla radio per la prima volta, battezzando così la nascita delle trasmissioni radiofoniche. Dalla fabbrica di Marconi, a Chelmsford in Inghilterra, la voce della cantante venne diffusa on air in tutto il Regno Unito riscuotendo un enorme successo e nei mesi successivi le trasmissioni furono perfezionate a tal punto da poter raggiungere altri Paesi europei, tra cui certamente la grande Francia. Questa pionieristica avventura si rivelò presto rivoluzionaria e contagiosa sotto molti punti di vista, alcuni forse meno noti ma piuttosto curiosi.
Non tutti sanno, per esempio, che uno tra i grandi personaggi ad essere stato contagiato dalla voce della bella Melba fu Auguste Escoffier. Cuoco dei re, re dei cuochi, capriccioso e audace in cucina come nella vita, Escoffier resta tuttora famoso per aver rivoluzionato le abitudini di cucinare e presentare i cibi a tavola, celebrando e diffondendo, già alla fine dell’8oo, l’haute cuisine francese in tutto il mondo. E pare che fu proprio la voce vellutata di Nellie Melba ad avere inconsapevolmente ispirato al grande cuoco una delle sue più famose ricette, battezzata poi con il suo nome: la pesca melba, appunto.
Un’opera d’arte fatta di frutta, panna, vaniglia e tanta passione. Un piccolo capolavoro da guardare, annusare, toccare e gustare. Come sia andata a finire tra i due non si sa ma mi piace immaginare che il baldanzoso Escoffier, dopo aver ascoltato l’irresistibile canto della dama alla radio, l’abbia raggiunta e conquistata, corteggiandola con la sua straordinaria sinfonia per la gola, le cui note saporite le avrebbero procurato indimenticabili piaceri.
Questo fiero e meticoloso cuoco, che nutriva un amore lezioso per il cibo, e non solo, è stato l’anticipatore di alcune importanti scoperte in campi apparentemente estranei alla gastronomia. In quell’epoca, la scienza e il positivismo contagiavano anche la cucina, che veniva considerata un’alchimia piuttosto che un’arte. In Francia, i cuochi rincorrevano l’idea di una haute cuisine basata sulla tecnica e sulla conoscenza di ciò che era salutare e ciò che invece non lo era. La convinzione che il sangue del maiale e la trippa facessero bene, per esempio, mentre i broccoli e la pesca fossero indigesti, indirizzava gli chef verso preparazioni pesanti e monotone. Ma Escoffier, che di tecnica e di scienza gastronomica non ne voleva sapere, affidava il suo talento alla sensibilità, alla creatività e all’esperienza. Era convinto che la maggior minaccia alla salute pubblica del suo tempo venisse dalla diffusa convinzione che “la necessità di nutrirsi appare il più delle volte non già come un piacere ma come un ingrato dovere”. Così, guidato esclusivamente dalla piacevolezza e dai capricci dei sensi, Escoffier ha fatto dello chef un artista e della cucina un’arte.
La sua grande passione era il brodo di vitello! Amava il suono dello sfrigolio della cipolla nel tegame, il profumo della carne deglassata a fuoco lento, l’aroma sprigionato da prezzemolo, timo e alloro mescolati con aglio e carote. Dedicava ore ed ore per preparare il brodo, lasciandolo sobbollire fino alla sublimità, dopo di che si sentiva pronto per cominciare a cucinare. Quel fondo di cottura – l’estouffade, l’umile fondamento di tutto ciò che segue – era per lui il principio del piacere e il segreto delle sue ricette. E ancora oggi, la sua tecnica resta intatta ed è utilizzata dai più grandi chef di tutto il mondo.
Ma, concretamente, qual era il merito della sua arte? Che cosa rendeva il sapore dei suoi piatti tanto allettante e inconfondibile? E cosa continua a rendere tanto felice una parte così primitiva di noi quando assaporiamo un certo cibo?
Ebbene, dietro all’appassionata dedizione di Escoffier per la cucina – e in particolare per l’estouffade - si nasconde, in realtà, una molecola, dal nome nemmeno troppo simpatico. Si tratta di un aminoacido chiamato L-glutammato, che si è scoperto essere presente in grandi quantità nelle proteine. L’inconsapevole genialità di Escoffier consiste nell’aver condito i suoi piatti di più L-glutammato possibile, il cui potere “saporifero” aumenta con la cottura e la stagionatura degli alimenti. Non ci sarà molta poesia in questa verità ma si tratta, comunque, di un’intuizione culinaria che ha avuto grande rilevanza anche in campo scientifico, biologico e neurologico.
Oggi si sa, infatti, che la nostra lingua possiede un recettore di glutammato specifico, che risponde al gusto delle proteine e che ci permette di distinguerle dagli altri sapori, facendocele apprezzare in maniera amplificata. Questo perché il nostro stesso organismo è fatto in gran parte di proteine, oltre che di acqua, e ha quindi bisogno di una costante ricarica di aminoacidi che al palato sprigionano un inspiegabile piacere. Probabilmente i vegetariani, come me, alterano questo meccanismo chimico adattandolo alle proprie abitudini alimentari. Immagino che la mia lingua possieda dei guizzanti recettori pronti a catturare tutta la bontà racchiusa in un pomodoro o in una fragola, piuttosto che un filet mignon au foie gras. Comunque, l’essere umano è nato e si è sviluppato carnivoro, si sa, e la lingua ama ciò di cui il corpo ha bisogno. Questo è il motivo per cui quando spolveriamo una pasta al pomodoro con del parmigiano grattugiato la pasta acquista maggior bontà: il parmigiano, infatti, trabocca di quella misteriosa molecola ed esalta il sapore della salsa di pomodoro rendendolo assolutamente unico, squisito.
Ma Escoffier, concentrato com’era nella sublimazione dei sapori al palato, ha paradossalmente scoperto anche un’altra verità. Vale a dire che il gusto, in realtà, è prevalentemente odore! I suoi piatti, infatti, venivano immancabilmente serviti caldi e fumanti, in modo che le molecole volatili dei cibi giungessero prepotentemente al naso e il piacere dell’olfatto anticipasse quello del gusto. Il profumo del boeuf bourguignon, in pratica, predisponeva positivamente l’avventore al pasto, stuzzicando le ghiandole salivari e mettendo in moto un desiderio molto più complesso del semplice appetito.
La lingua non è una brava solista nel concerto del piacere. Non potrebbe cogliere da sola tutte le sfumature aromatiche di un pizzico di dragoncello in una vellutata d’aragosta, l’accenno di vaniglia in una crema inglese, la fogliolina di cerfoglio immersa nel potage di carote. Ha bisogno della collaborazione del naso. Oggi questo non ci pare tanto assurdo, perché sappiamo che i recettori olfattivi occupano una grande parte del nostro DNA, oltretutto i neuroni nasali hanno un’ottima memoria e si rigenerano continuamente, rispondendo a migliaia di stimoli differenti. Tuttavia, l’olfatto non pare essere un senso molto “intelligente”, perché si lascia facilmente ingannare dal contesto. Moltissimi e divertenti esperimenti dimostrano che se ci viene fatta annusare dell’aria inodore ad occhi chiusi, informandoci che davanti al nostro naso ci attende un boccone di gorgonzola, ecco che si scatena immediatamente dentro di noi un famelico desiderio. Secondo questo stesso principio, la famosa aranciata è stata colorata di arancione perché era stato dimostrato che, con quest’aspetto, piaceva di più dello stesso liquido incolore, seppure con lo stesso identico sapore.
Senza volerlo, la mente inganna le nostre percezioni. L’innovativo Escoffier, inconsapevolmente, ha saputo sfruttare la fallibilità dei sensi e la conseguente confusione sinestetica con geniale professionalità. Intuendo, infatti, che quello che gustiamo non è solo un boccone ma anche un’idea, faceva sfilare i suoi camerieri in smoking, e i cibi venivano serviti in piatti d’argento e fini porcellane. Un piatto diventava perfetto se creava una disposizione d’animo perfetta.
Escoffier esigeva, pertanto, che i suoi piatti fossero sempre onorati ed era convinto che le persone potessero persino imparare a mangiare, addomesticando i propri gusti. Così, dopo aver lavorato al Savoy di Londra, sfidò se stesso scommettendo di riuscire ad educare persino le pessime abitudini gastronomiche degli anglosassoni. Inventò per questo il menu di degustazione, proprio come strumento educativo all’alimentazione, con la speranza che prima o poi gli inglesi sarebbero diventati un po’ francesi, almeno a tavola. E siccome il senso del gusto, così come quello dell’olfatto, è estremamente duttile, Escoffier con la sua scuola e i suoi seguaci è senz’altro riuscito nei secoli a convertire ed educare un’infinità di gusti, plasmando altrettanti palati, nasi e cortecce cerebrali.
Ecco, dunque, l’orgoglioso Escoffier, l’inventore di menu raffinati, l’educatore di gusti, il rivoluzionario dell’arte culinaria, catturato da improvviso incanto dalla voce di Nellie Melba. Lui, amante del lusso e delle donne, non resiste al desiderio di sedurla e comincia il corteggiamento creando un dolce con il suo nome. C’è però proprio da chiedersi con quale altra delle sue virtù possa essere riuscito a conquistare quelle della bella Melba, essendo la pesca a lei dedicata un dolce freddo, privo quindi di un profumo particolarmente intenso e coinvolgente. … Non so perché, ma mi piace pensare che Escoffier abbia acceso gli appetiti della gentile dama ricorrendo ad un aperitivo eccitante e antico come il mondo: la dolcezza di un bacio!

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