lunedì 17 settembre 2012

A tu per tu con lo squalo



Rangiroa è un tuffo nel blu, là dove il cielo si confonde con l’oceano. Non per nulla il suo nome significa “cielo infinito”.
E’ l’atollo più grande della Polinesia francese. Appartiene all’Arcipelago delle Tuamotu e con i suoi 240 motu, isolotti, separati da più di 100 hoa, piccoli canali, è l’angolo di Mondo più remoto che io abbia finora raggiunto.
Della Polinesia abbiamo normalmente l’idea di un paradiso talmente lontano da restare un sogno. Un paradiso fatto di ghirlande di fiori, perle rare e morbide ballerine ancheggianti al ritmo lento del tamurè, la danza locale. Anche Paul Gauguin, che visse al villaggio di Maiatea a Tahiti, restò così sedotto dalla sensualità delle donne tahitiane, le vahinè, da affermare: “Nessun uomo, nemmeno il più felice, può tener testa agli occhi di una vahinè”.
Altrettanto mozzafiato, però, è la straordinaria bellezza di questi motu. Rangiroa, in particolare, emerge dall’oceano come una collana di perle, ognuna delle quali è un’isola in miniatura, intrecciata alle altre da un anello di preziosi coralli, che abbracciano l’arcipelago formando una delle barriere coralline più ricche al mondo. Vista dall’alto dell’aereo Rangiroa è una tavolozza di azzurri e blu, pennellata da spruzzi di madreperla. Vista da sotto, in immersione, è un arcobaleno ricamato, un gioiello della natura, dove squali grigi, mante, razze, pesci napoleone e barracuda imperano, insieme ad una infinità di minuscoli pesci multicolore e conchiglie dalle forme più bizzarre.
Sull’isola non c’è praticamente nulla. Avatou è il villaggio più grande, per modo di dire, perché è un breve susseguirsi di piccole costruzioni colorate, che ospitano gli uffici amministrativi e le sedi delle attività economiche. Prima tra tutte la coltivazione della perla nera. Infatti, sull’isola si può visitare il Pearl Industry Research Center, il Centro di ricerca della perla. La pesca alla traina o d’altura e il turismo sono le altre due uniche fonti di ricchezza di una Terra non ancora contaminata dal ritmo asfissiante del progresso.
Qui ci si sposta prevalentemente in bicicletta, il mezzo migliore per gustare al rallentatore tutte le sfumature di un paesaggio che nasconde ad ogni angolo un incanto da scoprire. In sottofondo solo il silenzio, ravvivato dai richiami misteriosi di uccelli variopinti, dallo spumeggiare dolce delle onde sulle spiagge e dal vociare gentile della gente che sorride stupita, forse, dall’espressione incantata dei mie occhi davanti a tanta meraviglia.
Alloggio al Kia Ora Sauvage, una manciata di capanne in riva all’oceano, protette da una fitta foresta di palme tanto alte e folte da impedire al sole di fare capolino. Non c’è chiave alla porta della capanna, né televisione, né telefono, né cassaforte. Nulla di tecnologico. Bellissimo! Il ristorante è sulla spiaggia, ci si va a piedi nudi. Pochi tavolini sotto fronde di paglia, illuminati solo dalla luce fioca delle candele e da spettacolari tramonti, anticipo perfetto di un cielo stellato che pare ogni sera voler tuffarsi in mare. Una simbiosi magica con la natura condita, però, dallo stile francese che traspare in ogni dettaglio, dalla cucina, alla lingua, ai modi di fare della gente.
La popolazione polinesiana trasmette una sensazione di calma, di imperturbabilità. E’ cortese ma sempre riservata, molto religiosa e fedele alle tradizioni, tanto che non devono ingannare i costumi succinti delle vahinè, semplice eredità di un’antica usanza e non sfacciata seduzione. Traspare, dai tratti somatici, un caleidoscopio di razze diverse. Avventurieri provenienti da Malesia, Cina, Giappone, Arabia, Caucaso e persino Germania e Norvegia pare siano approdati fin qui mescolandosi, negli anni, con gli indigeni, originariamente frutto di un incrocio tra Indi e Peruviani. 
Parlando con alcuni ragazzi del villaggio imparo tanto, come sempre quando viaggio e mi mescolo alla gente. E’ così che una vacanza diventa esperienza. Scopro che, come tutte le popolazioni del Pacifico, anche i Polinesiani non hanno una storia scritta, avendo a lungo ignorato la scrittura. Quindi tutti gli eventi sono stati tramandati oralmente di generazione in generazione, mescolando storia e leggenda, realtà e fantasia. Ogni avvenimento tribale, dalla nascita alla circoncisione, dal matrimonio alla morte, viene ancora oggi celebrato con canti e danze che si prolungano anche tutta una notte, rigorosamente all’aperto. Quindi la musica, che per i turisti spesso non è altro che un souvenir da portarsi a casa impacchettato in un cd, è per i Polinesiani una forma espressiva molto importante.
Le canzoni raccontano di dei e leggende quasi sempre legate al mare e i balli sono praticati esclusivamente di notte, al ritmo dei pahu, strumenti a percussione ricavati da grossi tronchi d’albero. Esistono balli di coppia, gli upa upa, altri invece singoli, sia maschili che femminili. L’otea è, per esempio, un tipico ballo in cui l’uomo ancheggia simulando la grazia femminile, con tanto di gonnellina di paglia e ghirlanda di fiori sulla testa e attorno al collo.
Seduta a gambe incrociate sulla sabbia che mi culla, li osservo, un po’ drogata dalle note pigre del tamurè, dal fuoco dei falò e dal sole accumulato durante il giorno. La stanchezza si fa piacere e lascio ballare i pensieri incoraggiati dalla musica. Davanti a queste danze, che possono forse far sorridere chi è abituato all’esuberanza dei ritmi occidentali, mi viene in mente una bella frase di Proust dal sapore Zen: “Il vero viaggio di scoperta non consiste nel vedere nuovi paesaggi ma nell’avere nuovi occhi”. E’ proprio così, si può imparare a vedere. Allora anche questi riti apparentemente semplici, quasi infantili, acquistano un fascino e si riappropriano del loro vero significato.
Un vecchio canto polinesiano racconta della creazione del mondo, avvenuta ad opera di un soffio di vita da parte degli dei che infusero il loro spirito a tutte le creature dell’universo. E’ credenza ancora oggi che questi dei si nascondessero all’interno dei crateri dei vulcani, nel mare e sulle cime delle montagne. Per questo i motu sono considerati tapu, cioè sacri. E a guardare bene queste isole, devo ammettere che infondono davvero qualcosa di misterioso, con il loro ergersi orgoglioso su verso il cielo, direttamente dal profondo del mare. Sembra che la loro piccolezza racchiuda una forza sproporzionata. Una leggenda racconta che il dio del mare Ruahatu-Tini-Rau, innamorato di una principessa, salvò lei, la sua famiglia e tutti i sudditi da un tremendo nubifragio, sradicando l’isolotto su cui si trovavano, sollevandolo su in alto, fino al cielo.
Ma è negli abissi che l’incanto di Rangiroa sfiora l’estasi e sfida quasi a credere che un dio del mare sia davvero esistito. Una mattina, con una guida polinesiana e un piccolo gruppo di turisti giapponesi, raggiungo con la barca un hoa, un’apertura della barriera corallina che permette all’oceano di scivolare dentro la laguna. Con l’oceano anche gli squali fanno spesso visita qui e li si può osservare comodamente dalle barche dal fondo di vetro, insieme a coralli e spugne di ogni tipo. Ma quando il ragazzo polinesiano àncora la barca e si tuffa con maschera e pinne, io non resisto. Lo seguo e per la prima volta in vita mia provo il brivido di imboccare uno squalo nutrice con le mie nude mani. Non ho paura. Il silenzio e il blu riempiono la mia testa e lo squalo sembra comunque molto più interessato ai brandelli di pesce che gli offro, piuttosto che a me. Sento che strattona forte il mio braccio rubandomi il cibo di mano, mi guarda un istante e soddisfatto se ne va. Io sorrido dentro la maschera pensando ad un’altra leggenda che mi era stata raccontata la notte prima.
E’ credenza diffusa qui che le persone dopo la morte si reincarnino in squali. Ebbene, la leggenda racconta di un isolano che fu attaccato da uno squalo, mentre pagaiava con la sua canoa. Lo squalo balzò dentro la canoa ma mentre l’uomo stava per uccidere il pesce con una scure notò il suo sguardo, assolutamente umano. Così, temendo di colpire qualcuno che poteva aver conosciuto, l’uomo abbandonò la canoa e nuotò fino a riva. Lo stesso fece lo squalo, nuotando nella direzione opposta, verso l’orizzonte.
La semplicità di questi racconti è toccante e fotografa perfettamente l’anima di un popolo così lontano dal nostro modo di pensare.
Risalita in barca, guardo per l’ultima volta l’oceano che mi ha regalato così tante emozioni e mi sento felice, orgogliosa, arricchita. Tra i commenti incomprensibili dei Giapponesi e le loro espressioni incredule, saluto in cuor mio lo squalo chiedendomi chi possa essere stato prima di tuffarsi per sempre libero nel blu.
Sarà bello saperlo quando un giorno, forse, sarò anch’io uno squalo.

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