sabato 29 dicembre 2012

Il bacio e la Pianta della Luna



Un anziano barbuto, scalzo e magro per il digiuno, s’arrampica su una possente quercia. Avvolto in una lunga tunica bianca, con un falcetto d’oro in mano s’appresta a tagliare dei rami verdeggianti dalle bacche brillanti che raccoglierà poi in una candida tela, ben attento a non farli cadere a terra.
E’ la pittoresca immagine del Druido – antico sacerdote celtico - che secondo la leggenda alla fine dell’anno va a caccia di foglie di vischio per salutare, con i comandati riti propiziatori, l’inaugurazione di quello a venire.
Tradizionalmente, questo rito si svolgeva il sesto giorno della luna, in occasione della festa che segnava l’inizio dell’anno celtico: un traguardo simbolicamente importante, perché indicava la morte della vegetazione. Il vischio, invece, caparbio e orgoglioso, non solo restava tenacemente verde ma proprio in quel periodo gettava dei frutti deliziosi di cui erano particolarmente ghiotti i tordi i quali, cibandosene avidamente, ne disperdevano i semi ovunque. Così, in una stagione sterile, il vischio emergeva come l’unica specie resistente, in grado di propagare la sua vitalità a dispetto del freddo e dell’inospitalità del terreno.
Simbolicamente la pianta del vischio rappresenta, perciò, il carattere indistruttibile della vita vegetale, l’ininterrotta rigenerazione, la ciclicità dell’esistenza. Da qui il significato del suo nome, che in celtico indica “colui che guarisce tutto”. In effetti, sempre secondo le leggende, il vischio comunicava i suoi poteri vitali a chi ne consumava l’acqua in cui era lasciato a macerare, trasmettendo forza e vigore. 
Come spesso la storia ha dimostrato, le leggende celano alcune verità. I Druidi deducevano il potere del vischio innanzitutto dal suo aspetto: essendo una pianta saprofita, cresceva sfruttando il fusto di altri alberi. Di conseguenza, essendo aerea e priva di radici proprie, era considerata manifestazione degli dei che vivono in cielo senza sfiorare il suolo. Toccare l'umana terra avrebbe comportato per la pianta la perdita d’ogni potere, per questo la raccolta doveva essere protetta da un telo bianco. Anche la fattezza delle bacche, perlacee, lattiginose e brillanti nel buio, hanno contribuito alla fama magica del vischio, suggerendone il nome di “Pianta della Luna”.
E’ sintomatico che i Druidi scegliessero esclusivamente il vischio nato sulle querce, dato che in realtà era molto più facile trovarlo su meli, peri, pini silvestri e pioppi. Secondo Plinio, la scelta derivava dal simbolismo legato alla quercia, che era l’albero del dio dei cieli e della folgore, meritevole perciò di profonda venerazione. Il vischio, nel cantone svizzero di Argau, era persino considerato la “scopa del fulmine”, perché si credeva cadesse insieme alla folgore e chi ne avesse bevuto l’essenza, la linfa vitale, si sarebbe impossessato dello stesso vigore.
Al di là delle suggestioni magiche, qualcosa di fondato c’è. E’ significativo che all’estremità opposta del globo, nel nord del Giappone, esiste una comunità – quella degli Ainu – che tutt’oggi attribuisce al vischio poteri terapeutici. Pare che la pianta curi l’epilessia e renda feconde le donne sterili e il bestiame. A pensarci bene, l’analogia tra la natura del vischio e le sue presunte proprietà è potente: la sua propagazione operata dagli uccelli si allaccia simbolicamente al seme maschile e alla fecondazione; mentre la sua natura aerea giustifica il potere di guarire l’epilessia, detta “mal di terra” poiché la crisi epilettica si manifesta con una brusca caduta a terra e, come s’è visto, il vischio non deve mai toccare il suolo.
Un’altra leggenda lega il vischio alla dea anglosassone Frigga, sposa del dio Odino e protettrice degli innamorati. Dalle sue lacrime sgorgate per la morte del figlio Baldr nacquero le bellissime bacche perlate del vischio e quando magicamente Baldr riprese vita, la dea ringraziò chiunque passasse sotto l'albero con un dolce bacio. 

Questa è una delle versioni, riprese anche dal Cristianesimo, che spiegherebbe l’attuale usanza di baciarsi sotto un ramo di vischio la notte di San Silvestro. Ancora una volta, la realtà pare sposarsi felicemente con il simbolismo arcaico: dal nome “vischio” deriva l’aggettivo “vischioso” per indicare quella consistenza scioglievole, densa e persistente che collega due superfici aderenti. Espressa in maniera più poetica e piacevole, questa caratteristica effettivamente tipica delle bacche di vischio, potrebbe alludere all’attrazione amorosa e a quel magico bacio scambiato dalle tumide labbra di due innamorati l’ultima notte dell’anno.
A questo punto l’immaginazione può tutto, soprattutto quando si parla d’Amore: i fragorosi fuochi artificiali di capodanno si trasformeranno in beneauguranti folgori divine, mandate dal Cielo sulla Terra a suggellare le tacite promesse di due esseri umani amorosamente abbracciati sotto l’aura complice della Pianta della Luna.   

giovedì 27 dicembre 2012

Una celiaca d'altri tempi



Nel primo secolo a.C. ad Ansedonia viveva una donna ignara della fama che avrebbe avuto ai giorni nostri. La giovane, battezzata la ragazza di Cosa dal luogo che ha partorito il suo scheletro, rappresenta il primo caso noto di una delle malattie più diffuse oggi. I genetisti del Centro dell’Università di Tor Vergata di Roma, analizzando il Dna di alcuni suoi frammenti ossei, hanno diagnosticato infatti il cosiddetto morbo celiaco, più comunemente detto celiachia. L’intuizione è sorta dalla deduzione dell’aspetto fisico: la ragazza era rachitica, affetta da osteoporosi, ipoplasia, anemia e porosità ossea, tutte fragilità non riconducibili a un regime di vita povero poiché lo scheletro era ingioiellato e ben conservato. Conclusione: la malnutrizione della ragazza era presumibilmente dovuta a quella variante del gene HLA responsabile della celiachia.
Questa scoperta è di grande fascino, non solo perché è sempre emozionante ricostruire il passato attraverso i resti che il presente conserva. Ma anche perché dimostra che la celiachia è antica quanto l’uomo, o meglio, quanto il grano. Sì, perché oggi si sa che si tratta di una malattia autoimmune enteropatica dovuta a un’intolleranza al glutine, la proteina presente nella maggior parte dei cereali tra cui il grano. In genere compare durante lo svezzamento con l’assunzione dei farinacei e colpisce preferibilmente le donne. Nel celiaco l’introduzione del glutine attiva in maniera anomala il sistema immunitario il quale si ribella agli elementi che riceve: i villi intestinali si atrofizzano e frenano anche l’assorbimento dei nutrienti buoni espellendoli come nemici insieme al glutine. E’ come se l’intestino si trasformasse in un secondo cervello in grado di decidere autonomamente ciò che è buono e ciò che non lo è.
Lo spettro dei sintomi della celiachia è ampio e coinvolge dimensioni psicologiche che trascendono l’apparato gastrointestinale. In genere si distingue tra quattro forme di celiachia a seconda delle sue espressioni. Tipica: si manifesta con prepotente dissenteria, gonfiore addominale, perdita di peso, debolezza e turbe umorali. Atipica: somma ai sintomi della tipica anche anemia, malassorbimento del calcio, anoressia e dermatite erpetiforme. Silente: essendo priva di sintomi è difficilmente diagnosticabile ma eloquente alla sensibilità di chi ne soffre. Latente: individuabile in chi risulta positivo agli anticorpi anti-gliadina AGA e anti-endomisio EMA. 
Il caso della ragazza di Cosa, celiaca d’altri tempi e simbolo di una popolazione con abitudini nutrizionali diversissime dalle nostre, rivelerebbe che la malattia non dipende dalle condizioni alimentari moderne, né dalle manipolazioni genetiche dei cereali. Immaginando la vita della giovane, si può azzardare l’idea che l’eliminazione del glutine dalla dieta le avrebbe consentito un’esistenza più lunga e serena. Eliminare il glutine è ancora oggi l’unica soluzione alla malattia poiché non esistono farmaci specifici. Sono tuttavia moltissimi i casi di celiachia non diagnosticati, così come sono frequenti le confusioni tra intolleranze alimentari, disturbi psicologici della nutrizione e reali celiachie. Per questo una diagnosi accurata, a partire dall’esame del sangue, non solo è consigliabile ma spesso è indispensabile e predittiva poiché la celiachia registra un indice significativo di ereditarietà.
Oggi non è un sacrificio per i celiaci nutrirsi in maniera sana, allegra e fantasiosa: dalla pasta alla pizza, dai biscotti al cioccolato è possibile eliminare il glutine ma non il piacere. Gli alimenti gluten free, così come i ristoranti per celiaci, sono sempre più diffusi e apprezzati anche da chi celiaco non è, con la differenza che solo la malattia clinicamente certificata consente le agevolazioni economiche all’acquisto dei prodotti specifici. Bisognerà tuttavia attendere per vederli contemplati nel regolamento quadro delle diete speciali previste dal Parlamento Europeo che tuttora li esclude. In ogni caso, concepire la celiachia non solo come malattia ma anche come occasione per un’alimentazione alternativa al pari del vegetarianismo o del veganismo è già di per sé una cura, innanzitutto psicologica e di conseguenza organica. Perché si sa, mens sana in corpore sano, anche per i celiaci! 

lunedì 24 dicembre 2012

Incontri



Vorrei essere ancora capace di lasciarmi raggiungere dalle parole senza cercarle. 
Ormai capita sempre più raramente, il pensiero sgomita nel nulla, è stupidamente prepotente.
Ma succede, talvolta, di leggere righe altrui che risucchiano, avvolgono, ammantano come lenzuola calde. E allora ci si riconosce dentro quei pensieri di velluto come fossero nostri e ci si incontra.
E’ vero: ciò che si era resta maledettamente vivo in noi, vibra e ci preoccupa. 
Oppure ci salva…

mercoledì 19 dicembre 2012

Migranti



Quando si è piccoli, le persone sono come paesi.
Hanno confini e muri che li difendono e li separano l’uno dall’altro.
Il tempo è immobile e l’età non è una sfumatura lenta ma un balzo catastrofico tra noi piccoli e i grandi.
Mamma è sempre stata mamma, papà è sempre stato papà, gli adulti sono sempre stati adulti e noi bambini saremo sempre bambini.
Ma quando piano piano si cresce, che paese si diventa? 

Andata & Ritorno



Ultimamente non mi sto dedicando molto a questo mio bloggino, è vero. 
Colpa, o merito, dei miei nuovi impegni professionali. Finalmente si sta realizzando un sogno che ho sempre alimentato, quello di viaggiare non solo per piacere personale ma per scrivere reportage: raccontare emozioni, sensazioni, sapori, colori, odori di terre vicine e lontane, di gente sconosciuta e di idiomi mai sentiti.
Trasformare una passione in lavoro non è cosa da poco, per questo mi sento privilegiata soprattutto non avendo rincorso quest’opportunità di mia iniziativa ma essendone stata inaspettatamente abbracciata.
Vorrei dire, però, che ogni piccolo o grande traguardo raggiunto, ogni piccolo o grande sogno realizzato, non avrebbe lo stesso valore senza la partecipazione e il sostegno di chi ci ama. Solo quando torno a casa e posso finalmente raccontare con la voce, con gli occhi e con il cuore, ciò che ho assorbito lontano, capisco quanto sia straordinariamente infinito un viaggio. E capisco che per quanto il mio entusiasmo per la vita possa portarmi lontano, tornerò sempre fedele a me stessa e ai miei affetti più cari.
In fondo, è sempre il ritorno a casa che rende grande, unica e desiderabile ogni partenza!

venerdì 14 dicembre 2012

Louvre-Lens: la bellezza che salverà il mondo



Francia del Nord: il Louvre si fa in due

NEL NUOVO MUSEO DI LENS: LA BELLEZZA CHE SALVERA’ IL MONDO

Ogni città ha un suo profumo, proprio come le persone. Le città del Nord-Pas di Calais tra il Mare del Nord e il Belgio profumano di burro, simbolo non solo della ricca cucina ma anche dell’unione tra passato e futuro, idealmente mescolati in un dinamismo culturale d’eccezione.
Le fortificazioni militari che Vauban, ingenieur ordinaire di re Luigi XIV, progettò nel XVII secolo testimoniano secoli di guerre e di vittorie. Ma la sfida attuale di questa regione è la proiezione verso un futuro che intreccia memoria storica e innovazione. Gran parte delle città, come Lille e Arras, sono risorte dopo le distruzioni della prima guerra mondiale senza subire alcuna trasfigurazione e i 49 musei della zona insieme ai monumenti a cielo aperto tessono un armonioso dialogo con l’arte moderna e contemporanea.
E’ la città di Lens, oggi, ad attirare su di sé i riflettori. Già patrimonio dell’Unesco per le sue storiche miniere di carbone, la piccola Lens sembra uscita dalla nostalgica penna di Charles Dickens. Con l’inaugurazione del Museo Louvre-Lens la città si scrolla di dosso un passato di polvere nera per infilarsi in un futuro ricamato d’arte e bellezza. La scelta di collocare il Museo nel cuore di una zona essenzialmente operaia è di natura economica e filosofica: rivela la volontà di decentralizzare e democratizzare la cultura valorizzando un ampio territorio foriero di risorse e sorretto da una rete strategica di collegamenti con il resto d’Europa. Questa è un’opportunità vincente che riscatta una zona pesantemente segnata dalla crisi industriale attraverso la linfa della cultura. Se, come diceva Dostoevskji, la bellezza salverà il mondo, il Louvre-Lens ne è la dimostrazione.
Inaugurato il 4 dicembre 2012 dopo un’accurata ideazione e quattro anni di lavori, il Louvre-Lens ha un proprio afflato esistenziale che lo distingue sotto ogni aspetto dal suo omonimo parigino. Non rappresenta solo l’occasione di rinascita di una città ma anche l’opportunità di ripensare se stesso, scrostando la concezione del tradizionale museo in virtù di una nuova funzione, audace e dinamica.

Un’esposizione dinamica: 250 capolavori a turno ogni anno
Trovarsi al suo cospetto emoziona. La prima sensazione è di riverenza per una creazione che sotto una linearità eterea racchiude un’esuberanza artistica inestimabile. Gli architetti giapponesi dell’agenzia Sanaa, Kazuko Sejima e Ryue Nishizawa, hanno sedotto l’ambiente senza violentarlo, colonizzandolo con mistica armonia nel rispetto della sensibilità estetica. Su uno spazio verde di 28.000 metri quadri, la struttura si dirama con la leggerezza di una piuma articolandosi in cinque edifici rettangolari costruiti in vetro e metallo. Somigliano a chiatte fluttuanti su un fiume d’erba, cariche di tesori. La luce è l’anima del Museo che grazie alla trasparenza delle pareti risolve il confine tra interno ed esterno dipanando un unico filo conduttore in cui è consacrata l’alleanza tra l’opera dell’uomo e quella della natura. Racchiuse tra le linee discrete e minimaliste le opere d’arte dialogano tra loro e con i visitatori, perché lo spazio lascia il tempo a una raccolta fruizione. La Galerie du Temps offre un viaggio nella storia: dal periodo Ellenista al Medioevo, dall’età Romana al Rinascimento fino all’arte Islamica. La rotazione annuale dei 250 capolavori evita la rigidità dell’esposizione permanente, mantenendo sempre vivo lo stupore del visitatore che, come sottolinea il Direttore Esecutivo Henry Loyrette, sarà invogliato a tornare più volte per emozionarsi come fosse sempre la prima. Questa filosofia fa sì che protagonista del Museo sia innanzitutto l’arte non la struttura, la quale riesce comunque ad ammaliare ponendosi al nobile servizio della cultura. La complicità osmotica tra ambiente e urbanistica da un lato e tra artisti e fruitori dall’altro rende il Louvre-Lens il primo grande traguardo di una nuova era museale che affida con intelligenza la storia al futuro nel rispetto del presente.
La vicinanza di Lens con le città di Lille e Arras invita a una visita approfondita della regione, sfruttando la comodità della TGV, che in appena 40 minuti collega con l’aeroporto Charles De Gaulle di Parigi, delle autostrade A21 e A26, della metropolitana e delle navette che collegano il Louvre-Lens alla stazione.

Lilla: una città antica con lo spirito giovane votata al culto dell’arte
A Lilla, capoluogo della regione, si respira un passato ancora palpabile che con sua la torre civica, il Beffroi, sorveglia la vitalità della Grand Place. Il dialetto regionale si mescola per le vie con gli idiomi stranieri, quasi a ricalcare lo stesso armonioso amalgama che trapela dall’architettura. Oggi Lille è una città giovane, aperta al mondo e in perenne metamorfosi. Ha saputo allacciare una tradizione industriale essenzialmente manifatturiera con i progetti architettonici più avventurosi, tanto che nel 2004 è stata, insieme a Genova, capitale europea della cultura. Poco lontano dal centro storico, che nel periodo natalizio s’illumina con i mercatini e una grande ruota panoramica, sorge il quartiere moderno con le sue linee vertiginose e leggere. Avventurarsi dalla vieux Lille a Eurolille dà la sensazione di attraversare in un breve respiro secoli di storia in un’armoniosa distorsione del tempo.
La città attrae anche per i suoi musei. Il Palazzo delle Belle Arti ospita dal 6 ottobre al 14 gennaio 2013 due mostre: una dedicata alle Favole del paesaggio fiammingo nel XVI secolo, l’altra alla mitica Torre di Babele, con opere allegoriche raffiguranti l'episodio della Genesi interpretato in chiave moderna. Un concentrato di fantasia e sogno è invece offerto al Tripostal di Euralille dove dal 6 ottobre al 13 gennaio va in scena Fantastic, un’esposizione di opere surreali di artisti contemporanei tra cui troneggia l’americano Nick Cave. Fantastic abbatte i confini tra sogno e realtà e sfida le emozioni più perturbanti scaraventando oltre l’immaginario.

Una stimolante sorpresa: il museo “La Piscine” di Roubaix
Di tutt’altro sapore è il Museo d’Arte di Roubaix, poco lontano da Lille. La Piscine è un gioiello architettonico ricavato da un’antica piscina municipale trasformata in museo. Grazie all’operosità del suo Direttore Bruno Gaudichon, la Piscine è anche sede di numerosi laboratori didattici aperti al pubblico. Dal 13 ottobre al 13 gennaio 2013 è Marc Chagall a completare l’attrattiva del museo che, con le sue vetrate colorate riflesse nell’acqua, resta uno dei simboli architettonici più attraenti della regione.

Arras una città in...carrozza
Altra città dal fascino seducente è Arras, antico borgo medievale di trovieri e menestrelli e fervente centro di produzione laniera da cui è fiorita la tessitura di arazzi. Anch’essa è rinata dopo le devastazioni della prima grande guerra di cui restano le tracce nei cunicoli sotterranei che si diramano sotto la Grand Place. Oggi la città si presenta più scintillante che mai. Oltre le piazze, la Cattedrale, e gli immancabili mercatini di Natale aggiornati con bistrot a base di ostriche e champagne, la città ospita il suggestivo Museo delle Carrozze. Una piccola Versailles in cui le sontuose carrozze dei reali di Francia invitano a un immaginario galoppare da gustare in assorto silenzio.


Dove dormire.
Novotel Lille Centre, Lille, www.novotel.com Ai comfort della modernità unisce l’esperienza di una gestione attenta alle esigenze di un turismo sempre più istrionico e dinamico.
Hotel & Casino Lucien Barrière, Lille www.lucienbarriere.com Con le sue cinque stelle concentra lusso, divertimento e benessere. Inaugurato nel 1210, il Lucien Barrière si eleva su nove piani. Suoi punti di forza sono il casinò, un teatro, tre ristoranti, il Centro benessere Escal’ Bien-Etre e 17 spaziose suites da cui contemplare il parco di Dondaines. La cucina dello Chef Michel Vico è l’orgoglio dell’Hotel.
La Chartreuse du Val St-Esprit, Gosnay. www.lachartreuse.com L’Hotel eredita il fascino di un monastero del ‘300 e fonde seduzione e charme. Boiserie e arazzi ammantano le sale fino ai piani superiori su cui si affacciano le camere che profumano di sospiri e di misteri. A tavola le suggestioni dello spirito lasciano spazio ai piaceri più terreni: il servizio è regale e i sapori son deliziosamente coronati da vini eccellenti.
Hotel L’Univers, Place de la Croix Rouge, Arras. www.univers.najeti.fr A pochi passi dalla Cattedrale, offre un buon servizio condito dai sapori gastronomici regionali e internazionali.



Le soste del gusto
La Terrasse des Rempart, Logis de la Port de Gand, Lille. www.lilleremparts.fr Sapori piacevolmente contrastanti e ottimi vini tra cui il sensuale Guillaman Côtes de Gascogne.
Chez la vieille, Lille. www.estaminetlille.fr  Due piani sempre affollati a ogni ora della giornata e piatti traboccanti di golosità locali.
Patisserie Meert, Lille. www.meert.fr  Inimitabili le gaufres alla vaniglia, le tisane e il café gourmand.
Brasserie Castelain, Bénifontaine. www.chti.com Birreria artigianale dove poter gustare la famosa Ch’ti appena stillata.
L’Assiette au Boeuf, 56 Grand Place, Arras. Le migliori pomme frites della città in un ambiente sobrio e moderno.
La Cervoise Tiède, 56 rue Victor Hugo, Bénifontaine. Ottimi salumi e formaggi regionali conditi dalla simpatica accoglienza dell’oste.



                        LOUVRE LENS
                        Site Internet : www.louvrelens.fr <http://www.louvrelens.fr>

                         

giovedì 13 dicembre 2012

Sostenibilità e innovazione nell'agricoltura italiana



Solo tre parole: Ricerca, Ascolto, Collaborazione.
E’ la formula vincente che Bayer CropScience – azienda leader nel settore agrochimico internazionale per la tutela della produzione agricola e dell’ambiente – propone alla conferenza stampa del 12 dicembre a Milano dal titolo Innovazione e sostenibilità nell’agricoltura italiana. “E’ una ricetta antica, fatta di ingredienti semplici” sottolinea l’amministratore delegato del Gruppo Karina von Detten che, con piglio garbato ma deciso, interpreta tutto l’orgoglio del made in Italy agroalimentare, eccellenza insostituibile e inimitabile.
Nonostante il 2012 sia stato un anno drammatico in tutti i settori, l’agricoltura italiana resiste alla crisi e alla concorrenza con fierezza, affacciandosi al 2013 con audaci progetti fondati sull’innovazione e la sostenibilità. Parole, queste, spesso abusate altrove per corteggiare l’acquiescenza di un pubblico ormai disincantato. Per Bayer si tratta invece di programmi concreti, perché “l’innovazione è nel Dna di Bayer” e la sostenibilità ne è il suo indissolubile complemento.
Quali sono dunque gli attuali programmi di Bayer? 
La recente acquisizione di AgraQuest da parte del Gruppo è una delle mosse strategiche. AgraQuest è leader nella produzione di prodotti biologici per la protezione delle colture e sposarne la filosofia significa per Bayer aderire alla ricerca coerente di traguardi sempre più compatibili con l’ambiente e la natura. Non è un impegno nuovo questo per un’azienda che da sempre tutela sia chi produce sia chi consuma ortofrutta, perché tutti facciamo parte di una o dell’altra sfera e naturalmente tutti esigiamo più qualità e sicurezza da ciò che mangiamo.
Un secondo impegno concreto è quello di coinvolgere tutti i soggetti della filiera agroalimentare italiana, incrementando una nuova solidarietà da Nord a Sud, dalle piccole alle grandi colture. Primo tra tutti è il progetto Magis vino che riunisce le aziende impegnate nella produzione ecosostenibile di uve, verso un’agricoltura di precisione volta a fare sempre meglio. Nel 2013 Magis vino otterrà la certificazione che si estenderà anche all’uva da tavola, agli ortaggi destinati alla quarta gamma (le insalatine confezionate) e al progetto Gran Filiera dedicato al grano duro.
Oltre a questi step strategici mirati al prodotto che muoveranno circa 3 miliardi di euro, Bayer CropScience ha un altro obiettivo ambizioso. Quello di ascoltare, capire e dialogare con i bisogni più profondi delle persone che vivono di agricoltura. Non solo di coloro che operano nei settori tradizionalmente consolidati ma anche di chi s’improvvisa agricoltore, per passione o per necessità. Si stima oltre un milione di “Hobby farmers” in Italia, cioè di agricoltori non professionisti e non semplici amanti del giardinaggio ma “allevatori” di un proprio microcosmo ortofrutticolo. Bayer è lungimirante anche in questo: ha creato un catalogo dedicato a loro per sostenerli in un lavoro che, per quanto minimo rispetto al gigante agricolo nazionale, si sta diffondendo sempre più rivelando valori umani che non possono restare inascoltati.
L’attenzione di Bayer CropScience alla comunicazione e al dialogo non è certamente nuova. Da sempre l’azienda promuove lo sposalizio tra Coltura & Cultura attraverso la collana di libri dall’omonimo titolo che ha appena partorito la sua ultima creatura sugli Agrumi. Non solo: anche i giovanissimi sono invitati a partecipare creativamente all’innovazione del mondo agroalimentare. Per esempio attraverso il “Youth Ag-Summit, un evento culturale sponsorizzato da Bayer che avrà luogo in Canada il prossimo agosto, cui parteciperanno ragazzi tra i 18 e i 25 anni con i loro piani d’azione per salvare un Pianeta sempre più affamato. “Il mondo ha  bisogno di colori e Bayer non si nasconde nel grigio” rimarca Daniele Rosa, Direttore della comunicazione Bayer, e i giovani sono l’arcobaleno su cui investire.
E’ all’insegna dell’ottimismo che si chiude la conferenza, a dimostrare come i progetti non restino sogni ma diventino realtà quando si collabora con intelligenza, sensibilità e determinazione.
Karen von Detten conclude ricordando che 150 anni fa nasceva Bayer e l’anniversario sarà celebrato il prossimo anno in tutto il mondo con eventi spettacolari a sancire il successo di un Gruppo che è innanzitutto una grande famiglia. Ma l’amministratore delegato offre un incoraggiamento che trascende la vita dell’azienda e tocca l’anima di tutti, agricoltori, consumatori, giornalisti e semplicemente esseri umani. Con la dolce attesa del suo terzo bambino, Karen von Detten è l’incarnazione della fiducia nel futuro: la conferma che quando si crede in ciò che si fa e lo si fa con amore, si vince sempre. Non solo per se stessi ma anche per le generazioni che raccoglieranno i frutti da noi seminati.

lunedì 10 dicembre 2012

Mete


I binari dove un viaggio finisce 
son gli stessi su cui un altro comincia.
Notte e giorno scorrono paralleli senza scontrarsi mai, 
se non all'infinito
forse.

martedì 27 novembre 2012

James Hillman, verso il sapere dell'anima



“L’anima è vulnerabile e soffre; è passiva e ricorda. L’anima è immaginazione e un cavernoso deposito di tesori, confusione e ricchezza insieme. Però la vita, il destino, la morte non possono diventare consci; così con l’anima viene costellata una consapevolezza del nostro fondamentale essere inconsci.”
Sono solo alcune delle riflessioni di James Hillman concertate nel libro di Moretti & Vitali, a cura di Francesco Donfrancesco, dal titolo “James Hillman, verso il sapere dell’anima”. I saggi contenuti in questo volume rendono omaggio all’opera di uno dei più pregnanti pensatori del nostro tempo. Le voci degli autori convergono come una luce riflessa attraverso un prisma interpretativo che ricompone le infinite sfumature di questo psicologo americano innamorato della cultura europea e italiana. Anche grazie anche alle molte fotografie che ritraggono l’analista nella sua quotidianità, sfogliare le pagine di questo libro è un po’ come seguire i passi dell’Hillman uomo, semplice e sorridente, per le strade di Bologna, Firenze, Porto Ercole e Vignanello. Ne emerge un personaggio che tutti avremmo voluto conoscere per l’istintiva simpatia che suscita. Ma anche per la sua straordinaria levatura intellettuale, coinvolgente e contagiosa: pragmatico e filosofico, eretico e rivoluzionario, il più fedele erede di Jung è anche il suo più audace traditore poiché si sa che ogni allievo all’altezza del maestro riesce sempre a sorprenderlo. Tuttavia Hillman si sgancia dal pensiero junghiano abbracciandolo e non disdegnandolo. Decolla verso orizzonti audaci e ambiziosi, recuperando le preziose gemme di quella tradizione filosofica che sboccia in Plotino, Eraclito e Vico per atterrare in un presente in cui l’anima sembra essere sempre più mortificata dalla cultura della fretta e del materialismo.
Riconducendo il pensiero junghiano all’umanesimo italiano, Hillman rivaluta il sodalizio tra bellezza e giustizia, poiché la bellezza agisce come una voce che chiama a cose migliori, che spinge il cuore ad amare, la mente a immaginare. Eppure, la moralità senza bellezza immiserisce il cuore e la mente. Hillman punta il dito contro la perdita della facoltà originaria dell’uomo, la facoltà poetica e immaginativa, e coglie la causa dell’imbarbarimento della società moderna proprio nella diffusa incapacità di entrare in contatto con l’anima mundi sottesa a ogni essere vivente.
Fare anima è il concetto folgorante, davvero rivoluzionario, di Hillman: significa rovesciare il verso del proprio processo di crescita, pensare che anziché ascendere si debba discendere per conoscere le risposte ai propri interrogativi. Il cammino della comprensione è un progressivo oscuramento, un bagno nell’incertezza, volto alla ricerca di una verità obliqua e trasparente, mai rettilinea e cristallina. E’ un invito a riscoprirsi bambini per tornare a vedere gli angeli, quegli angeli che non sono fantasmi o miraggi ma le eloquenti manifeste sfaccettature di quell’anima mundi che dobbiamo assolutamente recuperare per non inaridire del tutto. Da qui l’esigenza di incoraggiare una psicologia politeista - perché l’anima è per sua natura politeista – per favorire la differenziazione e l’elaborazione di sè, non più l’individualizzazione di un illusorio unico Sè.
James Hillman, con profonda levità e pensosa ironia, ha teso un ponte intellettuale non solo teoretico ma soprattutto pratico tra passato e futuro, tessendo gli scenari culturali necessari per una psicologia più adatta all’uomo moderno. Queste pagine rappresentano la minuziosa testimonianza di quanto sia attuale e dinamico il suo spirito, anzi la sua anima. Anima che, attraverso la voce di chi ha avuto la fortuna di conoscere Hillman di persona, giunge viva e brillante anche a noi lettori, coinvolti in quello stesso sentimento di ammirazione e riconoscenza che trapela dai contributi degli autori.
Questo libro non rappresenta, dunque, solo un elegante omaggio James Hillman. E’ piuttosto è uno strumento concreto che contribuisce a trasformare l’incolmabile vuoto lasciato da un grande uomo in un terreno fertile da coltivare, in virtù di un raccolto intellettuale sempre più fruttuoso e contagioso. 

La Boqueria



Barcellona non è solo sinonimo di Gaudì, Picasso o Dalì. L’architettura surreale che folleggia qua e là per strade e piazze racchiude, infatti, un cuore polposo e saporito che trasforma in opera d’arte anche la quotidianità.
La città gravita attorno alla Rambla, il viale alberato che da Plaza Catalunya si allunga per oltre un chilometro fino al porto. E in quest’effervescenza di passanti rapiti dalle suggestioni di Casa Batlló, Parc Güell e La Pedrera, a un certo punto si sbocca nel più grande mercato popolare della Spagna: la Boqueria. Eccolo il cuore palpitante della città, dove la gente compra, vende, vive.
Quest’ampio spazio coperto che ogni giorno si risveglia brulicante di voci e di colori è chiamato anche Mercat San Josep e si trova esattamente al numero 91 della Rambla. Visitare la Boqueria non è meno importante che visitare la Sagrada Familia perché entrare in sintonia con Barcellona senza penetrarne l’anima catalana sarebbe come pretendere di gustare appieno un frutto limitandosi alla buccia. Secondo un critico d’arte australiano, Robert Hughes, la chiave per capire la personalità catalana è cogliere l’equilibrio tra il seny (il senso comune razionale) e la rauxa (l’emozione spontanea viscerale). E qui, alla Boqueria, ho afferrato finalmente il senso di quest’affermazione.
Aggirarmi tra i banchi traboccanti d’ogni ben di Dio e mescolarmi alla gente mi ha fatto sentire un po’ come Alice nel Paese delle meraviglie. Un paese goloso dove ogni dettaglio è esagerato nell’aspetto, nel profumo e nel colore. La struttura è costruita in ferro scuro, quasi severo, e sovrasta il luogo dove tradizionalmente i contadini catalani venivano a vendere i prodotti alimentari ai ricchi commercianti barcellonesi. Sull'origine del nome pare esistano tre versioni. La prima lo farebbe derivare da un maestoso portale d’accesso alla città fortificata, voluto dal Conte Raimondo Berengario IV detto il Santo dopo la conquista di Almeria, nel 1147. Ammirare questa meraviglia lasciava i viandanti letteralmente a bocca aperta, da qui verrebbe il nome Badoqueria, trasformato poi nell’attuale Boqueria. La seconda versione, meno romantica e più bucolica, farebbe derivare il nome dal fatto che qui si vende abitualmente la carn de boc, ovvero la carne di montone, considerata dai catalani una vera e propria squisitezza. Mentre l’ultima più sbrigativa associa semplicemente il termine catalano Boqueria a quello francese Boucherie, ovvero macelleria.
In realtà la Boqueria è molto più di ciò che il suo nome evoca. La disposizione dei banchi dei venditori è già di per sé uno spettacolo ravvivato dai dialetti regionali che s’accavallano nell’aria. La scelta dei prodotti è vasta ed eccellente e il rigore con cui è indicata la provenienza di frutta, verdura, carni e pesci dà la misura dell’internazionalità del mercato. Frutta esotica dai colori solari s’intercala a cascate di pesce ancora guizzante; funghi fiabeschi dall’aspetto inquietante sfidano riottosi crostacei e molluschi sensuali; ortaggi d’ogni foggia e dimensione s’affiancano agli animali da cortile esibiti come vittime sacrificali. Eppure, la sanguinolenta tracotanza della carne non offende la garbata poesia dei vegetali: tutto è esasperato ma armonioso, proprio come in un quadro di Dalì. E proprio come per un quadro, anche qui è la mano dell’uomo l’artefice di tanta bellezza. Questa giostra di colori è opera meticolosa dei commercianti che animano i banchi con la stessa sensibilità che il pittore usa nei riguardi della tela. Nulla sembra essere lasciato al caso e ogni dettaglio pare assecondare un ritmo cromatico ineluttabile. E’ arte anche questa, soprattutto se si pensa ai laboriosi preliminari di quest’esposizione che si rinnova ogni mattina ogni giorno dell’anno, sempre uguale eppure mai identica a se stessa. Perché, si sa, la bellezza stupisce sempre.
Visitare la Boqueria è dunque un piacere estetico che tuttavia comporta un effetto collaterale pratico: procura un’ubriacatura dei sensi tale da indurre il visitatore a trascendere la pura contemplazione. La tentazione all’acquisto compulsivo è prepotente, grazie anche alla premura dei venditori che stuzzicano l’acquolina offrendo golosi assaggi. Per questo i commercianti hanno pensato di aprire anche alcuni chioschi dove poter consumare piacevolmente qualche assaggio più consistente, tipico della cucina catalana e non solo. Uno dei piatti classici più semplici è il pa amb tomaquet, una bruschetta di pomodori senz’aglio che accompagna normalmente salumi e formaggi. Ci sono poi i calçots, profumatissimi cipollotti tipici della Catalogna serviti alla brace e conditi con una salsa a base di pomodoro, mandorle, nocciole, peperoni e olio. Un’altra golosità inimitabile è l’esqueixada, a base di baccalà crudo con cipolla, pomodori e olive. Chi invece riuscisse a sfuggire a tali eccessi può sempre consolarsi con le variopinte centrifughe di frutta che rinfrescano qua e là i banchi, accentuando il carattere esotico del mercato.
Infine, per gli amanti più esigenti della cultura enogastronomica, la Boqueria offre anche un’aula gastronomica, un punto d’incontro per cuochi e artigiani, venditori e clienti, turisti e curiosi, tutti accomunati da un unico scopo: la cura e il trattamento degli alimenti freschi. E’ questo, infatti, il primo grande segreto per eleggere la Boqueria non solo come il più grande mercato popolare del Paese ma anche come il migliore per qualità e rigore. Un mercato che continua a lasciare i viandanti di oggi, come quelli di ieri, letteralmente a bocca aperta!

lunedì 26 novembre 2012

Un Amore silente



Sento l’urgenza di esprimere un pensiero tanto profondo quanto banale.
Mai, dico mai, avrei potuto permettermi la vita che sto vivendo oggi se non fosse per mia madre. Non avrei potuto viaggiare e scrivere dei miei viaggi, interiori ed esteriori, se non ci fosse sempre stata lei a colmare con il suo impegno e le sue rinunce le mie frequenti assenze. Per troppo tempo ho dato per scontato la sua dedizione generosa, silente e gratuita, che è solo uno dei tanti volti dell’Amore. Per troppo tempo ho dato per scontato la fortuna di avere una famiglia alle spalle.
Vorrei imparare a manifestare spontaneamente la mia gratitudine e il mio affetto per lei ma evidentemente ho ancora troppi bavagli, troppe manette attorno al mio cuore per guardarla negli occhi e dirle semplicemente Ti voglio bene. Mi è più facile farlo così, vigliaccamente ma sinceramente, attraverso parole che sfumano nell’etere dove, anziché sentirmi nuda, mi sento scioccamente protetta perché so che il suo sguardo qui non si poserà mai.
Ho solo un grande inguaribile rammarico, quello di avere riscoperto mia madre solo ora che è nonna e a una nonna si perdona tutto, anche il fatto di non essere sempre stata una madre perfetta. Chi lo è, dopo tutto?
Spero di ricordarmi queste timide ma sentite parole quando un giorno, tra tanti anni, sarò anch’io nonna se il tempo me lo concederà.
 

sabato 24 novembre 2012

Bipolare


Aiuto, mi sento divisa ... alterno incessantemente i pensieri più casti e verginali a quelli più spudorati e lascivi. 
E' inutile, credo d'essere irrimediabilmente bipolare. Ma il peggio è che non voglio guarire!

La danza


La Donna scopre sempre di saper danzare 
quando l'Uomo scopre di saperla guidare.

martedì 20 novembre 2012

Un frutto per tutti i sensi



Diceva bene Marcel Proust sostenendo che il vero viaggio non consiste nella ricerca di nuovi paesaggi ma nell’avere nuovi occhi con cui scoprirli.
Ne ho avuto conferma anche quest’estate, in Madagascar, durante un’escursione all’interno della foresta primaria di Lokobe. Avventurarsi laggiù dà la sensazione d’essere avvolti dal morbido abbraccio di piante gigantesche che con le loro liane invitano ad addentrarsi sempre di più nel cuore vergine della primitività. 
Le foglie carezzano, i fiori seducono, gli animali spiano. 
Viene spontaneo trattenere il fiato per non disturbare la quiete, camminare in punta di piedi, quasi a rallentatore, per assecondare l’apparente immobilità degli alberi e dei loro ospiti. Ma soprattutto viene naturale aprire gli occhi in maniera nuova, educare lo sguardo a ciò che sembra invisibile e che tuttavia c’è: respira, si muove, osserva e spera di non essere scoperto, se non con rispetto.
Mentre la mia guida procedeva lenta nella delicata ricerca di serpenti e camaleonti rarissimi, io ho casualmente alzato lo sguardo verso l’alto, più interessata ai lemuri che ai boa. E frugando serendipicamente con gli occhi tra le palme frondose, ho intravisto qualcosa d’inatteso. Una polposa macchia color giallo brillante stava appesa a un robusto tronco di una pianta mai vista prima. Non solo una ma altre tre, quattro o forse più macchie gialle penzolavano pigre dallo stesso fusto. Sottovoce ho pregato la guida di dirottare il cammino verso quegli stranissimi spruzzi di sole per capire cosa fossero ed è stato così che ho incontrato per la prima volta il Jackfruit.  Quando si dice “amore a prima vista”!
La pianta appartiene al genere Artocarpus, una famiglia di circa sessanta specie di alberi e arbusti tropicali sempreverdi, di cui la più nota è il Breadfruit o Albero del pane. Il Jackfruit è una variante meno nota, almeno nella nostra cultura. La sua origine è asiatica: dalla Thailandia l’albero è stato trapiantato fino in Brasile dai viaggiatori portoghesi del sedicesimo secolo, anche se alcune ricerche farebbero risalire la sua primissima coltivazione a seimila anni fa, in India.  La cosa certa è che il suo nome deriva dal portoghese “jaca”, inglesizzato nel 1563 dal naturalista Garcia de Orta nel suo affascinante libro “Colòquios dos simples e drogas da India”. Più tardi, un certo William Jack, un ambizioso botanico scozzese dei primi dell’Ottocento, restò a sua volta talmente affascinato da questa bizzarra pianta rinvenuta durante un viaggio in Malesia che millantò la paternità del nome, Jack appunto.
Nome di battesimo a parte, il Jackfruit oggi è uno dei tre frutti beneauguranti del Tamil Nadu - insieme alla banana e al mango – oltre ad essere il frutto nazionale del Bangladesh. Un’altra curiosità che lega il frutto all’Oriente, arte culinaria a parte, è che da esso si estrae il colorante giallo utilizzato per tingere le tonache sacre dei monaci buddhisti.
La sua lunga storia ha permesso alla pianta di approdare molto lontano dalle terre d’origine ed è così che anch’io ho potuto scoprirla in Madagascar, straordinario crocevia di cultura africana e asiatica. Ogni Paese in cui è arrivata è stato contagiato positivamente dalla sua esuberanza. In Brasile, paradossalmente, il Jackfruit ha finito per diventare invasivo, soprattutto nella foresta secondaria del Tijuca, dove piccoli mammiferi come il coati, essendone golosi, contribuiscono a diffondere a dismisura i suoi semi nel terreno, alimentando così un’eccessiva espansione della specie vegetale a scapito di altre.
In Madagascar, invece, la presenza del Jackfruit è discreta ma generosa e rallegra la foresta punteggiandola qua e là di queste sfere ovoidali gialle che possono raggiungere anche il peso di cinquanta chili e un metro di lunghezza ciascuna. All’olfatto il frutto non risulta immediatamente simpatico, perché l’odore che emana quando è maturo è prepotente e ricorda un po’ quello aspro  e pungente della cipolla. Dev’essere un trucco che la pianta ha escogitato come naturale difesa verso certi animali. Toccando il frutto, la prima sensazione è quella di scontrarsi con una superficie rugosa e coriacea inespugnabile che sembra non promettere granché di speciale con tutti quei bitorzoli tondeggianti. Invece, la vera sorpresa del Jackfruit sta proprio nel suo cuore tenero, cosa che avrei scoperto con mio grande piacere a cena, quella stessa sera.
Anche grazie al Jackfruit, ho imparato che il vero viaggio non solo vuole nuovi occhi con cui guardare ma anche una nuova bocca e un nuovo naso con cui sentire sapori del tutto sconosciuti. Essere curiosi e lasciarsi stupire è indispensabile per aprire i sensi con disinvoltura a nuove esperienze senza diffidenza né timore. E questo vale anche a tavola, soprattutto quando ci si trova lontano da casa.
Prima di assaporare il misterioso gusto del Jackfruit, ho voluto capire come venisse ricavata la polpa dalla scorza brufolosa. E ho constatato che il lavoro d’estrazione non è impresa da poco, anzi somiglia più all’arte fine dello scultore che a una semplice operazione culinaria. Dopo un primo taglio netto che squarta la sfera ovoidale esattamente a metà, la scavatura deve essere eseguita da mani esperte, decise ma delicate, di solito femminili. Il cuore carnoso del frutto si lavora con un coltello flessibile con cui si ricavano decine e decine di petali, simili a grosse fave o a patatine chipster, dal colore giallo tenue e lucente. Io li ho mangiati crudi, perché il frutto da cui sono stati ricavati era maturo al punto giusto. Quando invece il frutto è ancora acerbo o giovane, la sua polpa viene utilizzata cotta in un’infinità di sfiziose varianti: bollita, stufata, arrostita, lessata nel latte di cocco, speziata con aromi agrodolci e piccanti, accompagnata spesso da gamberi o carne di zebù.
La consistenza del petalo del Jackfruit crudo, così come l’ho assaporata io, è fibrosa ma cedevole e al primo impatto, che risulta sonoramente croccante sotto i denti, segue una sdilinquita scioglievolezza sulla lingua che ammutolisce dalla bontà. Il profumo si percepisce appena, mentre il sapore è garbatamente dolce e sottile ma non facilmente definibile. Immagino che la timbrica dipenda dalle papille gustative di ognuno, perché mi è capitato di raccogliere sensazioni discordanti tra loro da parte di chi, come me, assaggiava per la prima volta questa prelibatezza. Banana, ananas, mandorla, vaniglia, mela, soia e persino sapone: questi sono solo alcuni dei sapori che questo frutto titilla al palato. In realtà, il Jackfruit è semplicemente unico, ridente e sensuale. Questo è un motivo in più per assaggiarlo, giocando a dare un nome al suo carattere senza confonderlo con altre unicità del mondo vegetale. La possibilità ci sarebbe anche qui in Italia, poiché lo si può trovare, anche se raramente, in qualche mercato etnico particolarmente curato. Un delitto, invece, sarebbe provarlo in scatola, sciroppato, tostato o essiccato, come mi è capitato di vedere in certe drogherie nel centro di Roma. Non solo il Jackfruit inscatolato perde il suo fascino esotico ma s’impoverisce anche delle virtù intrinseche, visto che non è solo bello ma anche sano. Il Jackfruit è, infatti, una ricca fonte di vitamina B1, B2 e potassio, con un concentrato minimo di grassi e massimo di carboidrati.
Quindi, se possibile, meglio raggiungerlo e gustarlo laddove naturalmente prospera. E per completare l’elogio del goloso frutto, aggiungo infine che se il Jackfruit mi ha stuzzicato vista, tatto, olfatto e gusto è riuscito a sorprendere anche l’udito. Il legno dell’albero viene, infatti, impiegato nella costruzione di strumenti musicali dalle sonorità morbide e sensuali che hanno spesso animato i tramonti infuocati di un Madagascar per me indimenticabile, in tutti i sensi.
Indimenticabile anche grazie a quel giallo sole, odoroso e saporito, che spunta qua e là nella lussureggiante foresta di Lokobe.